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Rispetto al DM 05/07/1975 si possono prescrivere maggiori dimensioni minime per scelte pianificatorie

Può un Comune imporre una superficie minima abitativa pari a 60 mq? Secondo il Consiglio di Stato è legittimo.

La scelta del taglio minimo delle unità immobiliari emerge sempre nelle ristrutturazioni edilizie e frazionamenti.

I requisiti e criteri minimi di abitabilità relativo al soggetto abitante umano sono evoluti nel tempo, partendo dalla antesignane istruzioni ministeriali 20 giugno 1896, fino a passare attraverso il Regio Decreto n. 1265/34 che istituì l’Abitabilità degli alloggi e fino ai giorni nostri con provvedimenti più restrittivi, vedi D.M. 15/07/1975.

Proprio questo decreto, con gli artt. 2 e 3 pose alcuni minimi inderogabili circa le dimensioni degli alloggi e appartamenti, valevoli in particolare per nuove costruzioni e ristrutturazione “sostanziali” compiute dopo la sua entrata in vigore.

Chiaramente non è raro imbattersi in alloggi costruiti in epoca anteriore a tale provvedimenti che risultino non rispettosi delle più severe normative, requisiti e regolamenti sopravvenuti. Per questi il mantenimento del loro stato dei luoghi, se legittimato correttamente da pratiche edilizie, resta impregiudicato fintanto non avvengono interventi edilizi sostanziali.

Il DM del 1975 ha quindi prescritto, in maniera inderogabile, le seguenti prescrizioni minime:

  • superficie minima abitabile per abitante: mq. 14 per i primi 4 abitanti, e mq. 10, per ciascuno dei successivi;
  • alloggio monostanza e monopersona (monolocali) superficie minima di 28 mq compreso servizi igienici;
  • alloggio monostanza per coppia: superficie minima di 38 mq compreso servizi igienici;

Il ministero che ha emanato questo decreto è quello della sanità, e come è assai noto, la materia di salubrità e igiene è costituzionalmente inquadrata come prioritaria e prevalente sull’interesse privato.

E’ la stessa motivazione che sorregge la prescrizione del rispetto delle distanze minime tra costruzioni di 10 metri rispetto all’interesse privato di edificazione, aspetto più volte trattato nel blog.

Un regolamento edilizio può imporre superfici minime maggiori al Decreto

Il regolamento edilizio comunale è un atto di natura regolamentare di livello inferiore nella gerarchia delle fonti, tuttavia mantiene il potere di inserire norme, dimensioni e parametri più specifici a condizione che non contrastino coi principi delle norme gerarchicamente superiori.

Fin dalla emanazione dell’art. 33 della legge n. 1150/42 e s.m.i. consentiva ai regolamenti edilizi la potestà di regolamentare aspetti igienici e costruttivi del proprio territorio, in particolare i punti 9 e 10 che riporto:

9) le norme igieniche di particolare interesse edilizio;

10) le particolari prescrizioni costruttive da osservare in determinati quartieri cittadini o lungo determinate vie o piazze;

Anche ai giorni nostri il principio è rimasto impregiudicato con l’art. 4 del D.P.R. 380/01 T.U. Edilizia, il quale prevede che “Il regolamento che i comuni adottano ai sensi dell’articolo 2, comma 4, deve contenere la disciplina delle modalità costruttive, con particolare riguardo al rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi.”

Tale principio è stato confermato integralmente anche dal Regolamento Edilizio Tipo, il cui recepimento sta avvenendo a macchia di leopardo nelle diverse regioni.

Ai regolamenti edilizi locali e comunali è demandata la facoltà di prescrizioni più restrittive.

Si tratta di valutazioni sostanzialmente rimesse all’autonomia normativa e pianificatoria urbanistica comunale, le quali sono espresse sia nel regolamento edilizio che nelle norme tecniche di attuazione (NTA), contenenti prescrizioni a contenuto generale.

Nel Regolamento edilizio si riportano le disposizioni di natura normativa-regolamentare, mentre nella NTA devono essere riportate le prescrizioni di natura più propriamente programmatica-pianificatoria, finalizzate a regolare la futura attività edilizia (Consiglio di Stato IV n. 2433/2013).

Le disposizioni riguardanti superfici minime ammissibili per le singole unità immobiliari riguardano l’intero territorio comunale, hanno carattere generale e rientrano nelle modalità costruttive.

L’ampiezza della dizione “modalità costruttive” presente fin dalla L. 1150/42 comporta che il regolamento edilizio possa legittimamente (e doverosamente) riguardare tutti gli aspetti destinati a regolare le singole edificazioni, senza esclusioni (Consiglio di Stato IV n. 2433/2013). 

La ratio di tutto ciò riguarda l’insieme dei profili del diritto alla casa, e relativi aspetti e requisiti di salubrità / vivibilità delle abitazioni e territorio.

Tra i diversi poteri di scelta pianificatoria edilizia e urbanistica del proprio territorio, al Comune è demandata la scelta delle modalità costruttive.

Per una motivazione di politica urbana e territoriale ogni Comune può legittimamente decidere le tipologie immobiliari consentite nelle nuove trasformazioni, nuove costruzioni e perfino sugli interventi del patrimonio edilizio esistente.

Ad esempio la quarta sezione del Consiglio di Stato con sentenza n. 2433/2013 ha ritenuto legittima la scelta pianificatoria di imporre un taglio minimo per le unità abitative da parte di un comune in zona balneare, giustificato nel voler evitare la creazione di quartieri “fantasma” o di seconde case praticamente vuote per nove mesi all’anno i cui relativi oneri di illuminazione, acqua, rifiuti, pulizia, ecc. rimarrebbero a carico della residua collettività dei residenti per 12 mesi (cfr. Consiglio Stato, Sez. IV 22.1.2013 n. 361).

Tale scelta, sotto il profilo pianificatorio, è finalizzata anche all’obbiettivo di garantire una maggiore qualità di vita volendo evitare tutti gli effetti “collaterali” derivanti da eccessiva speculazione edilizia tipica dei luoghi a vocazione turistico balneare quali l’eccessivo affollamento concentrato in pochi mesi, inevitabile traffico e carenza parcheggi, rumorosità notturna e diurna, lievitazione irragionevole dei prezzi, ecc..

Un altro profilo riguarda il taglio minimo delle unità immobiliari per nuove costruzioni o derivanti da frazionamenti, in particolar modo per quelle tipologie di minima entità come il monolocale.

Il Consiglio di Stato quindi ha confermato le legittime scelte di crescita e assetto del territorio fondate su ragioni di prevalente interesse pubblico, di carattere sociale, funzionale e qualitativo: tale impostazione risulta coerente anche sul piano costituzionale, in quanto l’art. 41 della Costituzione prevede che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (comma 1.), e comunque deve “.. essere indirizzata e coordinata a fini sociali “ (comma 2).

Il Consiglio di Stato, in conclusione sulla sentenza n. 2443/2013, ha statuito che la prescrizione di una superficie minima abitativa dell’alloggio costituisce un elemento significativo delle “modalità costruttive”, confermandone la legittima potestà di regolamentare le dimensioni dei nuovi alloggi, quindi riconducibile all’art. 4 del D.P.R. 380/01 ed alle altre norme ricordate, che consentono al Comune di porre dei limiti regolamentari al fine di assicurare la vivibilità delle costruzioni attraverso i propri Regolamenti edilizi.

Nella fattispecie analizzata dalla suddetta sentenza, la scelta del comune è apparsa corretta anche sotto il profilo della ragionevolezza: l’aver consentito la creazione di alloggi di 45 m² per ben il 25 % dell’intero fabbricato (il che non è poco) e di soli 60 m² per la restante parte appare comunque un ragionevole contemperamento tra esigenze naturalmente conflittuali, del costruttore al perseguimento del massimo lucro e della collettività dei residenti a pervenire ad un’idonea sistemazione abitativa.

Infatti le scelte politiche e pianificatore di un comune, in sede di regolamentazione edilizia e urbanistica, devono comunque mantenere un profilo di ragionevolezza, principio costituzionalmente garantito.

In punto di ragionamento, il criterio di un giusto equilibro tra le diverse parti attrici nell’ambito immobiliare è cosa buona e gradita per evitare scompensi o difficoltà nel medio periodo, come la c.d. Crisi immobiliare ha dimostrato a tutti gli operatori coinvolti.

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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