Cambiamenti funzionali, sociali e tecnologici hanno svilito gli insediamenti antichi fino al degradoa
Cause, soggetti ed effetti che hanno portato all’attuale configurazione delle città contemporanee.
Mappa di Firenze prima degli interventi di Giuseppe Poggi – Wikicommons
Sono lieto di pubblicare una vecchia ricerca prodotta durante i miei anni di studi universitari, in particolare per il corso di “Teorie e metodi della Pianificazione Territoriale” tenuto nell’anno accademico 2004/05 dai professori Giancarlo Paba e Prof. Camilla Perrone.
Premesse generali.
Gli elementi fondamentali del testo riguardano principalmente le cause, i soggetti, ma soprattutto gli effetti che hanno portato all’attuale configurazione delle città contemporanee. Naturalmente, per poter trattare bene tutti gli argomenti, si dovrebbe scrivere un’intera enciclopedia in merito, ma il principale obiettivo del testo è quello d’essere e di rimanere una breve sintesi sull’evoluzione dei fenomeni urbani.
In questa sede, la scelta dell’area geografica da prendere in esame si è limitata al territorio nazionale, ma ponendo implicitamente particolare attenzione alla regione Toscana, con la quale si possono comunque evidenziare le analogie con il resto della penisola.
Altra scelta non facile riguarda l’arco temporale da analizzare, precisando che procederà dal secondo decennio dell’Ottocento fino ai nostri giorni. A mio giudizio, l’immediato periodo post-napoleonico mi sembra il più idoneo, poiché ritengo che nonostante i pesanti stravolgimenti apportati dall’Impero Napoleonico alle strutture sociali, economiche e politiche, il territorio non aveva subito ancora le profonde modifiche che sarebbero avvenuti di lì a pochi decenni, mantenendo ancora pressoché intatta quell’antica struttura che perveniva dall’Ancien Regime.
Pertanto, nella sintesi che seguirà, le tematiche come politica, urbanistica, paesaggio, sociologia e tecnologia si intrecceranno vorticosamente tra loro, poiché tutte rigidamente correlate con una successione di causa-effetto. Il lettore non deve meravigliarsi se uso il termine tecnologia, perché è sta alla base dell’ultimo stadio evolutivo delle città, in altre parole di quegli spazi semi-virtuali che intendo definire come “techno-cities”.
Indice
Città del Vecchio e Nuovo Continente a confronto
I fenomeni di crescita urbana in Europa
I fenomeni di crescita urbana in Italia
Urbanistica dell’Italia negli anni Cinquanta.
Crescita urbana durante e oltre gli anni del “miracolo” italiano
Urbanistica e territorio nel post-moderno
La Techno-city come punto d’arrivo?
Città del Vecchio e Nuovo Continente a confronto
Nel contesto europeo ci sono molte città con forme e strutture diverse tra loro, però, generalizzando, quasi tutte hanno qualcosa in comune che le differenzia dalle città americane, cioè una “anima” di origine medioevale se non addirittura un nucleo di fondazione romana, mentre quelle d’oltreoceano sono al contrario quasi tutte di nuova fondazione. Nonostante la netta distinzione che c’era tra quelle del vecchio e del nuovo continente, negli ultimi decenni le trasformazioni edilizie ed urbanistiche le stanno rendendo sempre più simili tra loro, in quanto tutte le città del pianeta sono coinvolte nel più grande fenomeno di omogeneizzazione mai visto nella storia, facendo impallidire i tentativi di “totalizzazione” effettuati dall’Impero di Alessandro Il Grande, l’Impero Romano o il Terzo Reich.
Le città europee, si contraddistinguono dalle americane per la diversa morfologia, aventi un nucleo compatto in cui sono dislocate le principali funzioni di commercio, pubblico servizio, religioso, monumentale, residenziale, ma vi sono anche numerosi spazi pubblici di collegamento tra questi, il tutto contenuto all’interno dalle possenti mura e fortezze erette nel Rinascimento, diventate poi inutili per oltre due secoli, ma che continuavano a demarcare un confine tra città e contado.
In seguito, nel periodo ottocentesco, esse iniziavano ad essere interessate dal fenomeno della rivoluzione industriale, che comportò la prima espansione urbana al di fuori delle mura medioevali, e quindi, a mio giudizio, fu quello il momento in cui si ruppe per la prima volta il netto limite tra città e territorio extraurbano, limite non solo fisico ed amministrativo, ma anche di tipo percettivo che si era creato immediatamente alla caduta di Roma antica.
Le prime espansioni urbane si sono sviluppate nell’immediato intorno del nucleo medioevale compatto, e generalmente erano composte dalle prime attività industriali alternate ai quartieri operai, in contrapposizione si costituivano anche tessuti residenziali di tipo medio-alto borghese, contemporaneamente cambiava l’aspetto del nuovo spazio pubblico, con strade e viali alberati, sufficientemente larghi ed areati, e non come le strette vie medioevali, con un’orditura che iniziava a rispettare una griglia geometrica disposta secondo precisi criteri progettuali.
Le città europee sono in forte contrapposizione con quelle americane, le quali non hanno un compatto e antico centro, ma bensì una “city” che dai primi del Novecento si trasforma in un complesso di variegati grattacieli con funzione dirigenziale, sviluppandosi secondo una griglia geometrica con isolati più o meno larghi, mentre il tessuto residenziale e commerciale si estende sempre più velocemente in senso orizzontale, consumando così molto territorio; questi nuovi tessuti urbani si orientano con le nuove ferrovie, soggette a particolari leggi, la più importante quella che concedeva il diritto di edificare al proprietario della ferrovia per una fascia di profondità di un miglio, e ciò creava automaticamente un valore aggiuntivo del suolo che ha comportato la fortuna di alcune famiglie quali i Rockfeller e Rothschield (Isckhe 2001).
Tendenzialmente, negli U.S.A., più di crescita urbana si dovrebbe parlare di crescita suburbana o sprawl, vale a dire la creazione di tessuto residenziale in aree via via più periferiche, con edifici monofamiliari, generalmente in legno, a due piani ed isolate al centro del lotto di terreno, molte volte in stile “palladiano” e mantenendo una buona distanza dalla strada pubblica.
Tornando alle città europee, la stragrande maggioranza di esse vanta origini antiche, o comunque si sono sviluppate attorno ai vari insediamenti minori sparsi nel territorio rurale, ma soprattutto sono molto diffuse nel territorio e quindi relativamente poco distanti tra di loro, concentrandosi in particolar modo in alcune aree o regioni come quella renana, londinese, o quella padana.
Un altro carattere generale delle città europee è la prevalenza d’insediamenti di piccole e medie dimensioni, i cui centri, per motivi storici, riescono a conservare le funzioni economiche, politiche, culturali.
I rispettivi assetti urbani del vecchio e nuovo continente sono strettamente legati, con un rapporto causa-effetto-causa, ai problemi di mobilità urbana che sono emersi “esplosi” successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, dal momento che anche i ceti medio-bassi si potevano permettere, grazie alla più sfrenata fase industrializzazione che garantì maggiori redditi pro-capite, alimentando ancora di più la possibilità/esigenza di tessuti urbani posti a distanze sempre maggiori dal nucleo originario, sviluppando un urbanistica con effetti ambientali insostenibili.
Un altro aspetto che accomuna i sistemi urbani d’entrambi, i continenti è la perdurante fase di crescita urbana che ha portato alla formazione di quelle che sono state definite “macro-città”, “megalopoli” o più propriamente, aree metropolitane.
Sono aree geograficamente omogenee e prevalentemente urbanizzate, ma ciò non toglie che vi possono essere al loro interno aree rurali intercluse, o comunque sono di fatto costituite da un fittissimo mosaico di vari tasselli, il quale si configura come un’unica entità, si potrebbe immaginarne un’insolita analogia con un organismo, composto dai suoi diversi organi.
Il punto debole di queste entità non è solo il frazionamento amministrativo, che discende da chiare ragioni storiche, ma anche la reale crescita che comunemente è stata scoordinata al suo interno, cosa che i suoi abitanti hanno percepito, infatti in tutte le nostre città ci sono quartieri con vecchi toponimi, ma forse pochissimi sanno individuare le passate delimitazioni dei luoghi, per non parlare di quelle odierne.
Occorre anche ricordare come le caratteristiche identitarie di questi (ormai) non-luoghi si stiano sempre più avvicinando tra loro, somigliandosi sempre più, miscelandosi in una nuova confusa cultura urbana diversa dalle altre precedenti.
Negli ultimi decenni, la crescita urbana nelle aree metropolitane dei due Continenti quantitativamente ha rallentato notevolmente i suoi ritmi, ma dal punto di vista qualitativo hanno entrambe le stesse caratteristiche, cioè la sempre più ossessiva ricerca della rendita fondiaria e del profitto, considerando difatti il suolo come un insieme di tasselli sostituibili in funzione della redditività. Le aree metropolitane europee e americane hanno raggiunto più o meno la stessa strategia di sviluppo speculativa per i nuovi tessuti urbani e anche per quelli esistenti.
Gli interventi edilizi stanno assumendo su entrambe le sponde atlantiche sempre più un carattere speculativo, per questo edilizia e urbanistica europea e americana sembrano sempre più simili tra loro, naturalmente decontestualizzate dal suolo.
Le aree metropolitane planetarie fanno tutte parte di un nuovo iper-spazio, infatti sono tutte collegate costantemente dalle nuove tecnologie, per cui non ha più importanza essere in un luogo o in un altro, le stesse funzioni sono sempre accessibili ovunque.
I recenti fenomeni di sostituzione urbana, con cui sistematicamente si cancella una porzione di città per costruirne una diversa, metaforicamente parlando, ricordano il comportamento di un bambino che gioca con le costruzioni, che distrugge e costruisce isolati a suo piacimento. Anche la mobilità ormai si è uniformata, le aree metropolitane e i suoi abitanti sono sempre più assetati di velocità, il trasporto merci avviene sempre più su gomma perché il tempo è denaro, l’attesa e il ritardo è considerato un costo insostenibile, per cui vediamo sfrecciare a tutta velocità i corrieri sempre più stressati dai ritmi.
Succede anche alla mobilità privata, sempre più bisognosa di libertà di movimento e di velocità, il cittadino normale si deve sentire a proprio agio, sicuro e scattante nella sua auto, che diventa un vero e proprio spazio privato mobile, guai a fargli un torto quando è alla guida. Dagli anni Novanta a oggi, la sete di velocità, di libertà di movimento e di spazio mobile privato, hanno portato alla sostituzione delle utilitarie con gli ingombranti S.U.V. o fuoristrada, che effettivamente negli Stati Uniti servono per spostarsi da aree semi-desertiche all’interno delle metropoli, ma in Italia, per favore, non hanno questo scopo principale, ma solo quello di occupare più spazio mobile privato. Ciò dovrebbe far riflettere circa la debolezza psicologica raggiunta dagli abitanti metropolitani odierni.
I fenomeni di crescita urbana in Europa
Negli ultimi due secoli, l’Europa è stata interessata da una crescente fase d’industrializzazione accompagnata da un’altrettanto crescente sviluppo urbano, che ha avuto inizio attorno ai preesistenti nuclei insediativi, condizionando in varie modalità la loro struttura, ma generalmente le nuove espansioni tendevano a cancellare progressivamente per sempre quell’antica trama insediativa che miracolosamente era sopravvissuta fino ad allora (Pagliai, Tesi 2004).
La Rivoluzione Industriale innescò meccanismi e dinamiche di crescita urbana, condizionati soprattutto dalla crescita demografica, tanto che la popolazione europea raddoppiò dal 1800 e 1910 (Bairoch 1988), ma questo fenomeno interessò prima la Gran Bretagna, dove si verificarono numerosi condizioni favorevoli perché ciò avvenisse, cioè l’incremento di materia prima da lavorare grazie allo sfruttamento delle colonie, l’invenzione della macchina a vapore, la nuova gestione del territorio rurale che permise la recinzione di vasti appezzamenti di terreno con la legge sulle “enclosures” (De La Pierre 2001), il tutto ebbe la grave conseguenza di allontanare la manodopera bracciante in eccedenza verso le città. Negli altri paesi europei, invece ciò avverrà con qualche decennio di ritardo, ma le conseguenze furono in ogni caso molto simili, con “l’espulsione” di manodopera agricola in eccesso dalle campagne, andando ad alimentare il fenomeno di affollamento urbano ovvero urbanesimo.
Le varie città, che durante l’Ancien Regime avevano mantenuto una funzione militare, commerciale, culturale, e soprattutto d’unità di controllo direzionale del territorio rurale circostante, assunsero questa nuova funzione d’attrazione d’attività produttive manifatturiere, che necessitavano quindi di quella manodopera che fu era costretta ad abbandonare in massa le campagne. Questa nuova tendenza di sviluppo determinò anche la costruzione delle prime grandi infrastrutture o il potenziamento di quelle esistenti, quali strade, ponti e ferrovie, anche a seguito della rivoluzione dei trasporti che scaturì in quel contesto.
Ormai ritengo pensiero consolidato che la Rivoluzione Industriale è stata un insieme di concause che hanno determinato una serie di rivoluzioni successive, che sta perdurando ancora oggi, come effetto domino, tuttora in corso con la rivoluzione tecnologica.
I dati circa la dinamica della popolazione europea evidenziano i fatti, interessandoci principalmente dei dati inerenti la crescita urbana; come in tutti i paesi ad economia avanzata, si assiste ad costante calo della popolazione dei piccoli centri urbani in favore di quelli medio-grandi.
La popolazione che risiedeva nei centri urbani con meno di 20.000 abitanti, era pari a quasi due terzi della popolazione europea nel 1920, poi cala lievemente nel 1940 (61%), per calare maggiormente nel 1960 (52%) e a metà anni Ottanta circa il 42 %.
Al contrario, la popolazione residente nei centri urbani con oltre 100.000 abitanti cresce con ritmi serrati, infatti nel 1920 questa era pari al 23%, nel 1940 si attesta al 26%, in maniera massiccia nel 1960 col 38% e a metà anni Ottanta al 48%.
Nel 2000 il perdurante processo di crescita urbana ha portato quasi i tre quarti della popolazione europea a vivere nelle città, in cui si stima 86 agglomerati con più di 750.000 abitanti, di cui 16 in Germania e in Russia, 7 in Ucraina, 6 nel Regno Unito, 6 in Italia, 4 in Francia e 3 in Spagna, però occorre precisare che il livello di urbanizzazione non è distribuito in maniera omogenea, con valori elevati in Europa settentrionale ed occidentale (83%), mentre si hanno valori inferiori in Europa orientale (68%) e in Europa meridionale (66%).(De La Pierre 2001)
La crescita urbana a livello internazionale, nella seconda metà del XX secolo, è aumentata in maniera esponenziale nei paesi del Terzo Mondo, cioè in nazioni che hanno economie povere o in via di sviluppo, e si assiste ad un urbanesimo selvaggio, in cui tutti gli abitanti delle campagne cercano opportunità e salvezza nelle città, aggregandosi in baraccopoli marginali, manifestandosi come un’inedita contraddizione nel paradigma dello sviluppo.
Negli anni Cinquanta tra le quaranta città più popolose del pianeta, dodici erano europee, ma nel 2000 sono solo tre, e purtroppo le ultime indagini dell’O.N.U. confermano che questa tendenza è destinata a durare ancora.
In Europa il modello di crescita urbano ha portato a costituire una denso sistema reticolare urbano, composta da regioni urbane primeggiate dai grandi centri/nodi metropolitani, e gerarchicamente le città sono suddivisibili in vari livelli, in cui al più alto si ha le cosiddette “città globali” omnifunzionali, che posseggono tutte le strutture politiche, economiche, sociali, ma soprattutto tecnologiche, nelle quali alcune elitè sono in grado di “pilotare” a suo piacimento il sistema mondiale economico, finanziario, industriale, politico e militare, il tutto strettamente connesso a scala planetaria, quali Londra, New York, Parigi, Tokyo (Isckhe 2001).
Al livello intermedio vi sono i centri che non sono omnifunzionali come i precedenti, e quindi il loro sviluppo socio-economico e politico si è fondato su una o più caratteristiche specialistiche funzionali, e tra queste vi sono Lione, Rotterdam, Zurigo, Milano e Ginevra (Haddock 2004).
Al livello inferiore si hanno le città che svolgono la funzione di gestione e coordinamento del territorio nazionale o sotto-nazionale, individuabili come capitali regionali, di tipo multifunzionale.
Le città degli ultimi due livelli sono legate allo sviluppo del territorio di loro pertinenza, anche se a diverse scale, ma soprattutto al controllo politico-economico che esse vi esercitano.
I fenomeni di crescita urbana in Italia
Il Processo di crescita urbana in Italia si differenzia molto da quelli degli altri paesi europei per moltissimi aspetti, infatti le città italiane vantano quasi tutte antiche origini, dal periodo etrusco, romano e medioevale, e questa caratteristica è stata decisiva per tutti i processi territoriali. Inoltre, l’Italia fino al 1861 era un insieme di stati indipendenti abbastanza diversi sotto tutti i punti di vista, ed essi furono interessati marginalmente dall’industrializzazione.
Con la riunificazione sotto il Regno d’Italia, tutte le diversità emersero con ogni evidenza, e ciò non fece altro che ritardare e rallentare la modernizzazione del paese. In ogni modo i primi timidi processi di crescita urbana si erano già avuti nell’immediato periodo post-napoleonico, per incrementarsi nei due-tre decenni successivi in maniera costante.
Per esempio, nella Toscana dei Lorena, in molte città venne l’esigenza di modificare o eliminare le antiche porte medioevali che rendevano difficoltoso il traffico di accesso nelle città, o addirittura, come ad Empoli, fu necessario demolire alcune porzioni di mura (Pesendhorfer 1978). In generale, in taluni stati preunitari, fu attuata una politica di potenziamento infrastrutturale, costruendo nuove strade e ponti, ma soprattutto la prima “strada ferrata”, vale a dire la ferrovia, che principalmente fu progettata per scopi militari, ma in realtà fu la struttura portante che occorreva per dare impulso alla successiva fase di sviluppo economico.
Da circa la metà dell’Ottocento e fino a tutti gli anni Venti del Novecento, quasi tutte le industrie s’insediavano a breve distanza dai centri urbani, dai quali potevano attingere manodopera operaia che non aveva bisogno di spostarsi molto, mentre alcune attività, se ubicate più lontano, potettero avere a disposizione manodopera proveniente dalla campagna immediatamente circostante, che si spostava a piedi anche per chilometri al giorno (Guerrini 1957).
La costruzione d’industrie comportava l’esigenza di costruire quartieri operai, ma in Italia questo tipo di fenomeno è stato abbastanza contenuto; al contrario, un fenomeno diffuso fu l’edificazione di quartieri per la nuova e crescente classe medio-borghese, in forte ascesa proprio grazie ai nuovi processi produttivi insediati, e la tipologia edilizia adottata fu il villino isolato o a schiera, con stile architettonico eclettico o liberty, generalmente a due piani, spesso con un piccolo resede anteriore e posteriore.
Questi villini, oltre a rispecchiare il benessere raggiunto da questo nuovo ceto medio, rispettavano un’urbanistica e un paesaggio urbano direi più tradizionale rispetto a ciò che si verificherà nell’Italia repubblicana, cioè la loro edificazione poneva al centro il nuovo spazio pubblico come attrattore principale. Occorre fare anche una critica oggettiva a riguardo, infatti, in quel contesto la popolazione abitante era ancora legata al territorio e alla città, visto che ancora non possedeva l’odierna capacità trasportistica. La domenica gli abitanti non fuggivano dalle attuali città-dormitori per andare altrove, ma si riunivano nelle piazze, nei nuovi giardini pubblici, nei centri e nei nuovi viali urbani che generalmente univano la stazione con l’antica città, i cosiddetti viali a passeggio.
Con l’avvento del Fascismo, l’industrializzazione e quindi di concerto, l’urbanizzazione, conobbe una fase di intensa crescita; generalmente, i centri urbani possedevano una fisionomia composta da l’antico centro, circondato da aree con edilizia definita compatta di cui si è già parlato.
Durante il Ventennio, il modello d’urbanizzazione continuava, seppur in maniera differenziata, sullo stesso tipo che l’Italia aveva conosciuto a cavallo tra l’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, anche se tutti i tentativi del Regime di forzare ed accelerare l’espansione industriale non raggiunsero i loro obbiettivi. Furono costruite altre industrie che in teoria avrebbero dovuto aumentare il potenziale bellico della Nazione, ma in realtà le aspirazioni fasciste non potettero avere riscontro, infatti, fu tentato di industrializzare l’Italia con gli stessi ritmi e modelli che erano in corso in Germania, Inghilterra, Francia, ma nel nostro paese ciò non potette verificarsi perché mancava principalmente le risorse, inoltre la struttura sociale era ancora profondamente rurale.
All’interno degli antichi centri urbani ebbe inizio quella fase che purtroppo avrebbe perdurato fino ai giorni nostri e che è responsabile del loro diffuso degrado, in altre parole lo spostamento della nuova classe medio-borghese verso i loro nuovi quartieri, mentre il nuovo tessuto sociale della popolazione residente entro le vecchie mura, sarà composto generalmente da classi operaie o medio-basse.
Il Paesaggio urbano comunque subì alcune trasformazioni, infatti il Regime voleva imporsi al popolo anche mediante una propria architettura, e pertanto furono avviate varie trasformazioni urbane più o meno massicce e rimodellate in stile Impero, con una composizione architettonica plasmata da travertino, marmi bianchi e laterizi.
In vari casi, furono demoliti alcuni isolati ritenuti inutili per fare posto ad uno spazio pubblico quale la piazza, che sarebbe stata contornata dall’imponenza d’edifici pubblici, infatti si sono verificati alcuni episodi di demolizione di quartieri “giudaici” per far posto alle nuove “Piazze del Littorio”, pure ad Empoli avvenne quanto sopra; mentre negli edifici esistenti ubicati nei centri antichi la densità abitativa rimaneva altissima, e gli appartamenti (allora soprannominati “quartieri”) non avevano corridoi o disimpegni interni, ma potevano essere attraversati passando di stanza in stanza, mentre era raro trovare al loro interno servizi igienici privati, molto più diffusi erano i bagni a comune con tutti, ubicati “a metà scala”, cioè latrine ricavate in piccoli spazi condominiali (lasciando all’immaginazione le condizioni sanitarie, ma comunque ancora ben impresse nella memoria dei nostri genitori e nonni)
In vari casi, agli spazi pubblici esistenti, fu alterata la preesistente composizione architettonica ristrutturando le facciate d’alcuni edifici, per adattarli allo stile indicato dal Regime, e questi tipi d’interventi modificarono assai il paesaggio urbano italiano, che possedeva ancora una fisionomia medioevale. Negli anni 1940-1945 l’Italia entra in guerra, ma le speranze di vittoria ben presto si trasformarono in certezze di una sconfitta, infatti quasi tutti il territorio fu contemporaneamente invaso da nord dalla Germania e da sud dagli Alleati, per cui la lenta ma costante fase di liberazione della Penisola da parte di quest’ultimi, fu purtroppo preceduta da un lungo periodo di massicci bombardamenti effettuati dalle “fortezze volanti”, le quali in un primo tempo avevano l’obbiettivo di distruggere le infrastrutture e le industrie, ma poi dovettero iniziare a bombardare le città per “stanare” i tedeschi che si erano insediati al loro interno, mentre la popolazione residente “sfollava” nelle campagne dai vari parenti o amici.(Lastraioli 1993)
Nel contempo, l’esercito tedesco, per rallentare l’invasione alleata, iniziava a distruggere con le mine i punti strategici delle nostre città, quindi molti campanili, gli edifici posti agli incroci, ponti, eccetera.
Alla fine degli anni Quaranta l’Italia si presentava come una nazione ferita e distrutta, in pratica ridotta ad un cumulo di macerie, ma l’apporto di capitali americani diede la possibilità di iniziare la non facile fase di ricostruzione, che ha comportato molte modifiche al paesaggio sia urbano sia rurale, e qui si ebbe anche una forte frattura nel sistema sociale, meglio approfondita nel prossimo paragrafo. Nei primi anni del Dopoguerra, i paesaggi urbani delle città italiane erano completamente sconvolti e devastati dal comportamento di questi due eserciti, e in molti film anni Cinquanta-Sessanta si vedono ancora edifici da ricostruire.
Durante la lunga e delicata fase di ricostruzione, l’urbanistica italiana ha commesso una serie di gravi errori che ha causato la profonda alterazione dei paesaggi urbani italiani: molti edifici dei centri antichi, distrutti dagli eventi bellici, furono ricostruiti più o meno con la stessa sagoma planivolumetrica, ma con architetture, materiali, caratteristiche tipologiche e formali completamente diverse da quelle originali, ma occorre tener presente che il livello culturale degli enti pubblici ,e soprattutto le esigenze di allora, erano diverse da quelle di oggi.
Va anche ricordato, che alla fine degli eventi bellici, l’Italia permaneva un paese con una struttura eminentemente rurale e che si è conservata per tutti gli anni Cinquanta.
Dal punto di vista paesistico il territorio rurale, sia in pianura che sui rilievi, era ampiamente riuscito a mantenere quell’antica trama che derivava dal primo Ottocento, e si trova interessate citare uno studio storico sul Valdarno, in cui è stato eseguito una sovrapposizione computerizzata delle foto aeree del 1954 con la trama particellare elaborata per la ricostruzione digitale del Catasto Lorenese (Pagliai Tesi 2004).
Urbanistica dell’Italia negli anni Cinquanta.
Negli anni Cinquanta sia il sistema urbano sia rurale entrano in crisi, si frattura improvvisamente quell’inscindibile rapporto secolare tra città e territorio, tenendo conto che si era mantenuto anche a seguito delle importanti trasformazioni sociali e urbanistiche, avvenute tra Ottocento e la prima metà del Novecento.
Le concause che comportarono quanto sopra furono molte, in primo luogo l’innovazione tecnologica introdotta nel settore agricolo, ovvero la sua progressiva “industrializzazione” dei cicli produttivi, e in particolare, con la sostituzione della manodopera rurale con i macchinari trattori. Pertanto, molte persone e famiglie di braccianti agricoli, coloni, mezzadri, furono “espulsi” dalle campagne e costretti a cercare nuove opportunità altrove, in parte emigrando prima nei vicini e maggiori centri urbani, in parte in alcune regioni centro-settentrionali, in parte anche all’estero.
L’innovazione e il progresso tecnologico industriale non solo stavano “sconvolgendo” i tradizionali metodi dell’agricoltura, ma interessava eminentemente il settore industriale in forte ascesa, anche a seguito della lunga fase di ricostruzione italiana, peraltro coadiuvata dalla tecnologia americana che fece ingresso in Italia in quegli anni. (“Da quel momento, la famiglia diventava ostaggio dell’economia consumistica/capitalistica che i paesi neo-occidentali avevano adottato, volenti o nolenti…..” << Isckhe 2001>>).
Altri fattori che concorsero al cambiamento delle campagne, furono le riforme agrarie che furono attuate mediante la ridistribuzione delle terre, bonifiche idrauliche e costruzione di piccole infrastrutture per il territorio rurale, ma anche un cambiamento culturale nelle nuove generazioni, che iniziarono a rifiutare il loro ruolo contadino.(Ginsborg 1989).
Il paesaggio rurale nel giro dei successivi anni subì, un generale e forte mutamento, salvo in alcune aree dove l’innovazione tecnologica ritardò il suo ingresso, come ad esempio il Mezzogiorno.
Nel caso della Toscana, e in particolar modo nel Valdarno Empolese, ricerche storico-cartografiche hanno quantificato ed accertato il dimezzamento della storica rete idrografica minore, eliminati dalla meccanizzazione agraria (Pagliai Tesi 2004).
Al contempo, le città che ebbero un forte incremento della popolazione proveniente dalle campagne, localizzarono i nuovi abitanti nelle nuove periferie, le quali iniziarono il loro costante periodo di crescita estensiva.
Le nuove periferie urbane, iniziavano a divenire “luoghi” minori diffusi in contrapposizione al centro tradizionale, e la loro irruente crescita avrà conseguenze abbastanza negative sull’intero centro abitato, con la nascita di nuovi problemi ai quali le pubbliche amministrazioni non erano preparate, ad esempio di mobilità, ambientali, di urbanizzazione primaria e secondaria, etc.
Il fenomeno d’urbanesimo fu davvero consistente, negli anni Cinquanta circa il 70% dei comuni di tipo rurale perde popolazione, che viceversa si riversa in quelli urbani, la popolazione dei capoluoghi provinciali cresce costantemente e su 92 province solo 19 hanno un saldo migratorio positivo, tra l’altro sette di essi acquisirono quasi il 90% dell’incremento della popolazione italiana.(Lanzani 2003).
L’Italia era entrata in quella fase denominata “Il Miracolo Italiano”, con la quale scelse il modello di sviluppo industriale occidentale, abbandonando quello tradizionale rurale.
La famiglia poteva finalmente contare su una maggiore ricchezza pro-capite, tipica nelle fasi di crescita economica del regime capitalistica, grazie alla quale poteva anche permettersi una casa, magari costruendola su una piccola “presella” di terreno oppure acquistandola a “riscatto”, tipico meccanismo simile all’odierno leasing, in sintesi aumentarono i piccoli proprietari immobiliari.
Le famiglie riuscivano così a conquistare un loro spazio privato, dotato d’acqua corrente ed energia elettrica (si rinvia ai numerosi film dell’attrice Anna Magnani), attirando sempre più le attenzioni degli abitanti verso l’interno degli edifici a discapito dello spazio esterno, e da qui principiò il lento ed inesorabile processo di “disammoramento” nei confronti dello spazio pubblico, tuttora in corso.
Iniziò un processo d’abbandono della centralità che lo spazio pubblico aveva rivestito fino ad allora, in parte per crescente speculazione che provvide a tagliare i costi per essi, in parte per la crisi d’interesse degli abitanti per esso.
Le migliorate condizioni di vita nelle città, sia di tipo economico, sia sociali, sia edilizia, sia tecnologica, contribuirono ad incrementare e velocizzare la loro capacità attrattiva di masse extraurbane sfociando in un circolo vizioso, che dette l’inizio a una fase di estesa speculazione edilizia. L’inurbamento dilagante diede il via a questo processo, mediante il quale la proprietà fondiaria riusciva a realizzare forti guadagni con la vendita dei terreni, anche frazionata, grazie alla zonizzazione degli strumenti urbanistici di allora (in genere dei molti programmi di fabbricazione).
I terreni agricoli che diventano edificabili acquistano un mero valore aggiuntivo, che la produzione edilizia vuole “catalizzare” immediatamente, ma le condizioni economiche di allora erano veramente particolari, i processi di nuova edificazione non riuscivano a soddisfare la domanda, per cui si ebbero numerosi episodi di super-speculazione che dequalificarono i nuovi insediamenti. L’immaginario collettivo ha ancora ben presente i cosiddetti “palazzinari”, termine che ben ricorda l’imprenditore edile o il proprietario terriero senza scrupoli.
Essi sono in parte responsabili della costruzione di numerosi quartieri periferici mal progettati, poveri di nuovi spazi urbani e con uno scarso livello di urbanizzazione primaria e secondaria.
In molte periferie furono costruite palazzine con molti piani, con intelaiatura in cemento armato a faccia vista, ubicate nelle nuove lottizzazioni con altissima densità edilizia e occupando quasi totalmente il fondo edificabile. Gli appartamenti posti all’interno della palazzina spesso avevano la stessa distribuzione degli spazi interni e stessa superficie, in pratica tutti uguali ai vari piani, e lo schema generale rispettava di solito la simmetria.
I fronti degli edifici tendevano ad essere ancora a schiera e sistemati a filo strada, o al limite leggermente arretrati di una manciata di metri, disarticolando a zig-zag i fronti stradali; le facciate erano costruite generalmente con una composizione architettonica che cercava di rispettare quella tradizionale, ma iniziava a manifestarsi anche una prima timida “esplosione” dei terrazzi e dei corpi aggettanti dai prospetti, mentre i perimetri dei fabbricati risultavano abbastanza compatti nel complesso.
Occorre anche precisare che l’altra tipologia edilizia molto diffusa era il villino, isolato o più spesso a schiera, con strutture verticali in muratura ed orizzontali in calcestruzzo armato, altezze d’interpiano comprese tra i tre e tre metri e mezzo, visto che le licenze edilizie di allora non prevedevano i pesanti oneri di urbanizzazione e costi di costruzione introdotti con la Bucalossi.
La distribuzione interna nelle nuove unità residenziali prevedeva la netta distinzione delle camere matrimoniali e delle camere separate per i figli, anzi, per la precisione, le stanze cominciavano ad essere distinte in base alle loro diverse funzioni e non più usufruite contemporaneamente per diverse necessità. Numerose testimonianze confermano che la cucina, stanza di preparazione e consumo alimentare, aveva la funzione di stanza di soggiorno, ma a volte le massaie vi svolgevano anche piccole mansioni artigianali (Guerrini 1957).
Queste due tipiche tipologie edilizie, sono comunque ancora in rapporto con lo spazio pubblico, ancora non diventato un vuoto indefinito che divide i singoli isolati, ma inizia a manifestarsi un cambiamento che perdurerà nei decenni successivi.
Lo spazio pubblico non è più ben progettato ed articolato, spesso rimangono incompiuti o sistemati provvisoriamente, per esempio i marciapiedi non sono più piantumati con arbusti o alberi, le strade e le piazze si trasformano lentamente in spazi per l’automobile, incrementando il senso d’indifferenza degli abitanti verso questi luoghi.
Sempre negli anni Cinquanta, iniziano a manifestarsi i primi movimenti migratori interni, principalmente dal Meridione verso il Centro-Nord e Lazio, e avvennero molti casi di spostamento di una quota parte degli abitanti di un paese, concentrandosi nella nuova città di destinazione entro un certo intervallo di tempo.
Questo primo fenomeno, che negli anni successivi assunse crescita esponenziale, ebbe non poche ripercussioni sulla società “autoctona” di allora, come emerso da alcune interviste effettuate su alcuni anziani (Pagliai, ricerca sociologica del Centro Storico di Empoli – Sociologia Urbana 2003).
Molti anziani descrivevano, in forma diretta o indiretta, che l’arrivo degli immigrati dal Sud comportò una serie di grossi problemi, il più importante un improvviso aumento della criminalità: quasi tutti ricordavano che le porte condominiali su strada non avevano la serratura e addirittura le porte d’ingresso agli appartamenti raramente avevano il “catenaccio”, tra l’altro non usavano spesso.
La popolazione immigrata meridionale s’insediava nelle aree edificate a basso costo, sostituendo nei centri storici il crescente ceto medio che si spostava nelle nuove periferie oppure, non appena poteva permetterselo, acquistava un piccolo lotto e vi edificava un edificio ad un piano di basso profilo architettonico esteriore ma ottimamente rifinito al suo interno, ma si manifestarono anche certi episodi di lottizzazioni abusive spontanee. (Dal punto di vista produttivo le famiglie meridionali poterono agevolmente compiere quanto sopra perché molti di essi erano impiegati come manodopera edile, anche se in principio erano braccianti agricoli).
La confusa pianificazione di allora ha erroneamente zonizzato il territorio, affiancando aree densamente residenziali ad altre densamente industriali, con processi produttivi molto rischiosi dal punto di visto igienico-ambientale.
Con il disinteresse generalizzato per lo spazio pubblico, le fabbriche diventano spazi collettivi a tutti gli effetti, in cui gli operai specializzati del posto si relazionano con i nuovi generici operai immigrati, assumendo così una connotazione spazio centrale, che diventerà nel prossimo decennio il luogo-base da dove inizia la lotta per il progresso sociale.
Il commercio avveniva ancora nei negozi di vicinato, con caratteristiche merceologiche ben variegate, in cui tutti i giorni le massaie della stessa via s’incontravano per fare la spesa, e quindi la “bottega” era al contempo uno spazio di conversazione tra consumatori e commercianti, tradizione ancora pre-industriale ma che dagli anni Sessanta avrebbe iniziato lentamente a perdere forza a vantaggio degli allora innovativi grandi magazzini.
A fine anni Cinquanta e durante i Sessanta, si manifestarono vari episodi di profonde ristrutturazioni edilizie con le quali gli edifici venivano perfino demoliti e ricostruiti con maggior volumetria in elevazione, con tecnica costruttiva ed architettura diverse, comportando una sostituzione edilizia “aliena” rispetto al contesto, cioè realizzata con materiali estranei al luogo di cui i nostri centri storici purtroppo hanno molte testimonianze.
Nel Valdarno si ritrovano molti edifici con parte basale rivestita con diversi tipi di marmi o pietre varie, ma fu impiegata largamente la Pietraforte fiorentina, oppure vari bugnati in pietra serena o pietra bigia, disposti a filaretti o con disegno misto, mentre gli intonaci per il momento continuavano ad essere di calce tradizionale.
Crescita urbana durante e oltre gli anni del “miracolo” italiano.
Il decennio degli anni Sessanta, si rivelò importante per l’urbanistica italiana, fu il periodo in cui avvennero le maggiori rotture socio-economiche col passato. Intanto si era concluso, o quasi, il periodo di ricostruzione e si era affermato il nuovo modello di sviluppo economico capitalista, che permise un maggior benessere e maggiori redditi a tutte le fasce sociali e ciò diede inizio anche in Italia all’attuale fenomeno del consumismo di massa.
Le case degli italiani cominciavano ad essere dotate d’acqua corrente, energia elettrica, e quindi degli elettrodomestici di fabbricazione americana o tedesca, ma soprattutto molte famiglie potevano permettersi quello che fino ad allora era, di fatto, un bene di lusso: l’automobile.
La massiccia diffusione dell’automobile tra gli italiani, che si potevano finalmente permettere grazie al maggior potere d’acquisto, di converso diede il via ad una serie di problemi che tuttora stanno rendendo inabitabili le città, cioè inquinamento atmosferico e acustico, traffico,etc…
La nuova mobilità di massa si svolgeva prettamente o a ciclo urbano o nel tempo libero, con le gite nel fine settimana, ma ancora doveva prendere il via l’odierno il grave fenomeno di pendolarismo automobilistico extraurbano.
La mobilità delle masse che si recavano al lavoro avveniva per mezzo dei trasporti pubblici come bus, tram, o con le rare linee metropolitane che furono costruite in alcuni grandi centri, oppure mediante i motocicli come la “Vespa” o la “Lambretta”, e in parte minore con le automobili. La vita quotidiana degli italiani fu modificata dalla penultima rivoluzione tecnologica, cioè la televisione. I primi tempi era un oggetto per poche famiglie benestanti, per cui se ne poterono dotare vari locali pubblici come i bar, che diventarono fin da subito luoghi centrali della nuova informazione multimediale. Ben presto, quasi tutti gli italiani potettero permettersi una televisione per famiglia, e questo fatto dequalificò pesantemente i paesaggi urbani di tutta Italia, coprendo i tetti furono alla rinfusa di “ragnatele” di antenne.
Gli anni Sessanta, oltre ad essere caratterizzati dalle suddette innovazioni tecnologiche, ebbero uno straordinario sviluppo urbanistico accompagnato da un massimo livello d’industrializzazione.
La maggior mobilità delle classi lavoratrici ebbe moltissime conseguenze, la più importante fu la definitiva mutazione del valore della strada, non più vissuta come spazio sociale di primario interesse ma come luogo di attraversamento spaziale, quindi le nuovi direttrici di sviluppo urbano si innestarono lungo tutte le arterie stradali. (Facendo una metafora, la crescente pressione del traffico trasformò le strade da terra in acqua)
La strada mutò anche in senso trasversale, i manti erano stati quasi tutti asfaltati e tinteggiati dalla segnaletica orizzontale, ai lati e alle banchine venivano installati i primi cartelloni pubblicitari che ironicamente “Marcovaldo scambia per nuovi alberi per legna da ardere” (Rodari 1967).
La strada, diventando spazio pubblico attrattore, cambia connotazione e si cominciano a manifestare i primi esempi di effetto “vetrina”, vale a dire lungo alcuni tratti stradali e infrastrutturale si posizionano molte industrie ed attività commerciali, peraltro che con la televisione si era affermato definitivamente sulla popolazione un nuovo concetto consumistico, cioè la pubblicità.
La strada urbana, così come le piazze, inizia a perdere la propria centralità di spazio pubblico “umano” per diventare spazio pubblico “automobilistico”, in tal senso si assiste alla sostituzione del loro creatore “uomo” col nuovo protagonista “macchina”, trasformandosi in un insieme di parcheggi e carreggiate.
Lo sviluppo urbano di molte periferie non si legava più alle nuove viabilità, ma vi si discostava un poco, dalla fine degli anni Sessanta infatti iniziò il fenomeno soprannominato “rururbanizzazione”, che si sarebbe amplificato fino a tutti gli anni Settanta.
Con esso, spariva per sempre la delimitazione abbastanza forte tra città compatta e territorio aperto, i nuovi edifici residenziali venivano ubicati nelle campagne creando una specie di “arcipelago” urbano incoerente, metaforicamente parlando la campagna tornava ad essere fruita (a modo proprio) dalla popolazione, ma in realtà questa preferiva, se poteva, allontanarsi dalla città.
Le cartografie permettono una chiara lettura di questo sviluppo d’edilizia diffusa, molti edifici apparvero in campagna come se fossero piovuti dal cielo, oppure come “schegge impazzite provenienti da una esplosione urbana” (<<Lanzani 2003>>).
Naturalmente questo modello d’espansione urbana aveva moltissimi difetti che possiamo osservare tuttora oggi, per esempio una grave mancanza di urbanizzazione, sia di tipo primaria che secondaria (fognature, marciapiedi, strade, illuminazione pubblica e opere di metanizzazione, scuole, servizi sanitari, edifici pubblici,etc..) che per la loro difficile configurazione erano antieconomici da realizzare, problema aggravato oltretutto dal fatto che i comuni non potevano ancora disporre degli introiti derivanti dalle future concessioni edilizie.
Le nuove periferie in pianura si estesero maggiormente attorno ai centri compatti, ovvero occuparono zone vallive o costiere, spesso con bassa densità e rapporti di copertura fondiari; gli edifici non costituiscono più una cortina sul filo strada, ma al contrario si distaccarono tra loro e dallo spazio pubblico.
Esse rappresentano il più grave punto di rottura con la città compatta, costruite a volte separando nettamente le funzioni per zonizzazione o in molti casi creando aree urbanisticamente confuse, saturando aree edificabili con edifici aventi funzioni diverse che portarono alla creazione della “città mista”.
L’edilizia cambia connotati e prevalgono alcune tipologie edilizie, cioè la palazzina a schiera (multipiano, in cemento armato, spesso orientata indipendentemente dall’orditura stradale, costruita liberamente sul lotto di terreno e arretrata rispetto alla strada, lasciando uno spazio vuoto privato spesso adibito a resede condominiale) ma anche distaccata su tutti i lati e non molto elevata.
Da allora, la forma degli edifici diventa sempre più articolata, ai corpi di fabbrica principale si aggiungono molti corpi aggettanti, i perimetri assumono forme complesse e non più compatte, inoltre i prospetti vengono invasi da terrazzi, elementi estranei all’edilizia tradizionale del centro-nord ma onni-presenti al sud e sulle coste, in effetti, il terrazzo sulla strada rappresentava un simbolo di “controllo” reciproco tra gli abitanti, metaforizzandone il potere.
In generale, nelle nuove costruzioni i piani terra stavano perdendo lentamente la valenza di spazio riservato alle piccole attività commerciali e artigianali, per essere adibiti a “sgomberi” o garage per le automobili.
Le nuove espansioni d’edilizia residenziale dovevano soddisfare principalmente il nuovo ceto medio, ma era ben presente anche un ceto sociale inferiore che reclamava il diritto alla casa, per cui si fece largo la necessità di controllare la crescente esigenza abitativa mediante l’uso dell’edilizia pubblica, con la prima di una lunga serie di normative in merito, cioè le famose lottizzazioni dei Piani per l’edilizia economica e popolare, noti come “167”; su questi edifici, realizzati con le stesse caratteristiche accennate appena sopra, furono effettuati alcuni esperimenti che non diedero i frutti desiderati, producendo volumi a torre, a schiera o con le più svariate forme, ma comunque con una configurazione inizialmente più povera rispetto alle altre, e l’errore che danneggiò maggiormente fu la mancata integrazione con il resto della città, criterio spesso verificatosi durante la pianificazione di allora, creando anomale isole P.e.e.p.
A differenza del precedente decennio, negli anni Sessanta le normative imposero il rispetto degli standard urbanistici nelle nuove espansioni, e tale provvedimento fu indispensabile perché la stragrande maggioranza delle lottizzazioni effettuate dai privati non ne aveva tenuto considerazione. Questi erano interessati a ricavare il massimo profitto dal suolo, e non prevedevano affatto attrezzature o servizi pubblici, al massimo si limitavano solamente a progettarli, per cui rimasero molti vuoti urbani in attesa di definizione, completati in seguito e in maniera errata o diversa.
Riassumendo, le città si espandevano sia con la nuova e timida edilizia diffusa, sia con l’edilizia periferica di tipo “estensiva”, spostando continuamente i limiti urbani verso l’esterno, per cui iniziò a formarsi un’insolita fascia periurbana di campagna, coltivata fino a pochi anni prima e abbandonata all’incolto in attesa di un’imminente edificabilità, e tuttora oggi molte periferie sono circondate da terreni improduttivi, che accolsero facilmente vari episodi di degrado come le discariche abusive.
Su area vasta, il modello di crescita urbana a “macchia d’olio”, tipico degli anni Sessanta e poi Settanta, ha prodotto grandi agglomerati senza forma, chiamati anche conurbazioni, in pratica si trattava di tessuti urbani che crescevano fondendosi tra loro, unendosi e gettando ancora nuovi bracci. La densa rete dei piccoli centri urbani, disposti attorno alle città medio-grandi, fu la struttura portante della crescita incontrollata, ma forse è più giusto dire scoordinata, le grandi infrastrutture viarie oltre alle automobili “trasportavano” con loro pezzi di città, variamente densi.
In breve tempo, la precedente struttura reticolare del territorio si trasformò in una massa informe, senza più confini fisici né percettivi. In moltissimi casi, quelle che fino a pochi anni prima erano distinte frazioni di provincia, secolari luoghi caratteristici o piccoli insediamenti rurali, furono inghiottiti da questo nuovo “mostro” divoratore, e adesso sono “sommerse” nel tessuto esistente (Pagliai – Segno di Empoli 2004).
Queste nuove aree geograficamente omogenee saranno in seguito individuate come aree o città metropolitane, riconosciute e regolamentate nei decenni seguenti da una timida normativa nazionale. Ma la cosa che caratterizzerà queste nuove entità, sarà il fatto di non avere una precisa identità locale, anzi, essa non l’aveva affatto, si configurerà fino ai giorni nostri solo di miscuglio confuso, che riesce a nascondere i luoghi identitari presenti.
Con l’inizio degli anni Settanta, l’edilizia e l’inurbamento subisce un forte rallentamento, iniziano ad diminuire i movimenti migratori dal Meridione verso il Centro-Nord, la città diventa ogni giorno più congestionata dal traffico e le attività produttive si concentrano in alcune aree molto esterne alle città e ai limiti dei confini amministrativi.
La crisi energetica degli anni Settanta è indicata da molti sociologi ed economisti come la fine del “trentennio d’oro” dell’industrializzazione occidentale (De La Pierre 2001), in effetti il modello di sviluppo occidentale, fondato sul petrolio medio-orientale, entrò completamente in crisi, anche se nel giro di qualche anno la crisi rientrò e tutto ritorno alla normalità, ma le riflessioni sviluppate furono notevoli: le classi dirigenti, ma soprattutto la popolazione, da poco coinvolti dai movimenti culturali sessantottini, furono costretti a riflettere sul modello socio-economico di cui facevano parte. Iniziava così a farsi breccia nell’immaginario collettivo una nuova consapevolezza, un nuovo senso di responsabilità e d’ecologia, ma sembra che non abbia prodotto effetti tangibili, anzi sono gravemente insufficienti, si è sempre fatto più largo il senso di malessere che la città trasmetteva per colpa delle sue patologie.
Da macchia d’olio a sprawl.
Le città degli anni Settanta continuano il loro processo d’espansione verso l’esterno ma con ritmi in costante rallentamento, tenendo presente che la morfologia delle periferie sarà sempre di tipo esteso. Il tipo di crescita urbanistica prosegue comunque a macchia d’olio, ma si afferma prepotentemente il fenomeno dello “sprawl”, cioè aumenta la confusione tra città e campagna, la residua delimitazione percettiva e reale tra di essi si perde inesorabilmente, come se il centro stesso desiderasse allontanare alcune parti di sé ovvero non riuscisse più ad attirarli.
Si costruiscono molti edifici mono/bi-familiari, a due-tre piani fuori terra, quasi obbligatoriamente in cemento armato poiché la normativa anti-sismica iniziò ad essere finalmente più severa, con schema distributivo in cui il corridoio separa la zona giorno dalla zona notte, le altezze medie delle stanze si riducono fin quasi al minimo di legge perché si tende ad economizzare, e generalmente prevale la proprietà sull’affitto.
Queste “schegge” urbane, generalmente erano costruite al centro di un lotto ed isolate, e non svolgevano solamente una funzione residenziale, ma anche una funzione di piccole attività produttive, e in minima parte, per l’attività rurale da svolgersi durante il tempo libero.
Le loro distanze reali dal centro abitato non aveva più importanza, ormai sia esse sia le distanze percettive erano state completamente ridotte dalla moderna mobilità privata, che iniziava a superare quella pubblica e quindi a congestionare sempre più il traffico. Questa nuova edilizia diffusa era in ogni modo dipendente o dai centri urbani oppure dai piccoli insediamenti rurali che si erano urbanizzati sufficientemente.
Le attività commerciali riescono ancora a mantenere la prevalente tipologia di negozi di vicinato, col bottegaio che ancora dialoga con le massaie, ma iniziano a diffondersi i grandi magazzini più velocemente rispetto al decennio precedente, ciò nonostante non smantellerà ancora la rete delle “botteghe”, peraltro ancora molto variegate come merceologia.
Questa complessa serie di trasformazioni urbanistiche ebbe effetti complementari sui centri antichi, la necessità di modernizzare la residenza dequalificò gli edifici posti nei centri storici, definizione che vi sarà attribuita proprio in questi anni, in cui gli amministratori rifletteranno sul tema di conservazione di questi tessuti. Il minor apprezzamento delle abitazioni dei centri storici da parte della popolazione getterà le premesse di un loro diffuso processo di degrado, sia architettonico sia sociale, che non interesserà le città d’arte e/o universitarie, ma coinvolgerà tutti i centri storici “minori”, degrado che perdura tuttora con gli effetti ben visibili.
I residenti dei centri storici del ceto medio-alto tendono a spostarsi verso nuove e più prestigiose abitazioni di periferia, preferibilmente nei nuovi quartieri stile “città-giardino” howardiana che spuntano dal nulla, e si assiste alla sostituzione di questo ceto con un altro mediamente più povero, proveniente principalmente dall’immigrazione interna nazionale, che inizia a rallentare i suoi ritmi.
L’antico nucleo urbano, tendenzialmente, continua a perdere la storica funzione di residenza per i cittadini più agiati, ma riesce ancora a mantenere (ancora per poco tempo però) la storica funzione di commercio, ancora il “piano terra” continua ad essere vissuto, però si assiste alla sostituzione delle residue piccole attività artigianali con le attività commerciali.
Negli anni Settanta, si assiste al rallentamento della crescita del settore industriale, mentre si afferma il settore del terziario e dei servizi che si dislocano ovunque, ma in particolar modo nei centri storici, possibilmente al piano terra e primo, oppure ai piani superiori se l’edificio è stato modernizzato in uno dei molti episodi di “sostituzione” urbana di qualche antico edificio, magari rovinato dagli eventi bellici.
La nuova configurazione del centro storico non altera la sua storica funzione di spazio pubblico, (anche se molte antiche pavimentazioni furono letteralmente sommerse dal moderno asfalto per agevolare il traffico veicolare), perché al suo interno sono ancora ubicate varie attività commerciali e direzionali, e le normative, sia nazionali che successivamente regionali, iniziano a tutelare e salvaguardare l’edilizia, che in effetti aveva subito troppe alterazioni.(Oltre a vari numerosi interventi di sostituzione degli edifici, a questi stavano alterando le originarie caratteristiche tipologiche e formali, sia esterne che interne.)
Si moltiplicano gli interventi edilizi che concernono pesanti modifiche di prospetto, introducendo rivestimenti con pietre e marmi “alieni” oppure mosaici sulle facciate principali, ma il peggio si verificherà nello spazio retrostante e all’interno degli isolati, con aggiunta di superfetazioni di ogni genere, cioè volumi secondari, tettoie, terrazzi, ampliamenti, saturando i resedi urbani sopravvissuti negli anni Cinquanta e Sessanta. All’interno delle unità immobiliari non si tende più ad eseguire interventi di risanamento conservativo con cui ad esempio si poteva mantenere volte e solai lignei, ma si perpetuò interventi di ristrutturazione che inserirono solai in cemento armato, ma gli episodi sono migliaia.
I centri urbani fino ad allora riescono a mantenere un’identità locale che col tempo tende a diminuire costantemente, sia per la sostituzione del tessuto sociale sia per le alterazioni architettoniche, le quali nel giro di qualche decennio hanno provocato una vera metamorfosi di questo fondamentale luogo. L’identità inizia una fase di declino anche per altre concause oltre a quanto sopra, di tipo psicologico e culturale negli individui, in particolare nelle nuove generazioni venne infatti a mancare il tradizionale processo di pieno passaggio da una generazione all’altra di tutta la sapienza locale.
I giovani si distaccarono dal proprio luogo per una lunga serie di motivi, come la nuova raggiunta libertà fisica (con le automobili e i motocicli) ma anche la nuova liberta culturale, “esplosa” col Sessantotto e che si manifestò attraverso molte forme di linguaggio umano come musica, arte, droga, istruzione e dialogo sociale.
Occorre concludere il seguente paragrafo con una riflessione sul paesaggio. Il territorio rurale ormai aveva perso l’originale fisionomia, le riforme agrarie degli anni Cinquanta, la meccanizzazione agraria ma soprattutto la voglia di riscatto sociale della popolazione di campagna portò all’abbandono di molte terre e alla loro radicale trasformazione, in Toscana per esempio la secolare mezzadria fu sostituita dai rapporti di affitto o di coltivazione diretta dei fondi.
Le particelle di terreno, che fino a pochi anni prima erano di dimensioni ridotte, si accorpano per facilitare la tecnica lavorativa meccanizzata, ma anche le colture cambiano, siano come tipo che come morfologia, i vigneti non si impiantano più a girapoggio ma a rittochino, i nuovi oliveti saranno disposti a filari e non più sparsi, scompare il seminativo arborato diventando specializzato, e insieme ad un’altra lista di esempi, tutto ciò comportò gravi conseguenze sull’equilibrio idro-geologico (Pagliai – Tesi 2004).
Il paesaggio urbano subì molte modifiche, oltre a quanto già illustrato in precedenza, non solo dal punto di vista materiale, ma anche da quello visivo e sensoriale, che solamente le persone più anziane hanno potuto percepire, cioè la totale alterazione del paesaggio urbano notturno; la massiccia diffusione dell’illuminazione pubblica elettrica, avvenuta dalla fine degli anni Settanta, e non solo nei centri urbani ma soprattutto nelle estese periferie, ha cancellato per sempre la faccia notturna della città, illuminata a giorno, all’interno della quale non si osserva più il firmamento ma a malapena si può scorgere una luna sempre più sbiadita.
Urbanistica e territorio nel post-moderno
A partire dai primi anni Ottanta la sociologia e la demografia italiana cambiano in certi aspetti, in primo luogo si arresta quasi completamente la migrazione interna, soprattutto quell’unidirezionale tra Meridione e Centro-Nord, e s’incrementa notevolmente un nuovo tipo d’immigrazione tuttora vigente, vale a dire quella di tipo extra-comunitario, inizialmente composta di soggetti provenienti dalla sponda sud-ovest del Mediterraneo, (Marocco, Algeria e Tunisia) e prevalentemente poveri, in parte essi divennero venditori ambulanti abusivi, in parte si avviarono a svolgere le mansioni lavorative usuranti, che le nuove generazioni di italiani iniziavano a rifiutare.
I flussi migratori degli anni Novanta hanno portato in Italia grandi masse d’individui provenienti da alcune aree specifiche, come Albania, Cina, nazioni arabe, India, Pakistan, eccetera.
Dal punto di vista demografico, il tasso di natalità cominciava a flettere sensibilmente rispetto alla mortalità, anche se comunque il numero dei nascituri erano ancora consistente, conseguenza strettamente legata ad anni di benessere moderno e tecnologizzazione sempre più marcata.
Dal punto di vista urbanistico si consolida in maniera definitiva l’area metropolitana, composta di una fitta rete di città e centri urbani densamente connessi tra loro mediante periferie e città diffuse, o peggio ancora da strade-vetrina, mentre la campagna sarà considerata sempre più un elemento estraneo nell’attesa di trasformazione. Inoltre s’incrementa molto il pendolarismo lavorativo tra città e centri “satelliti”, che avviene mediante traffico ferroviario ed eminentemente veicolare, così pure il trasporto merci delle attività produttive che si appoggerà sempre più su gomma.
Si assiste ad un nuovo riassetto delle aree metropolitane, delle città ma anche delle campagne coinvolte, perché il pendolarismo si articola sempre più per diverse funzioni e su scale diverse. I sistemi metropolitani cominciavano ad evolversi assumendo una specifica configurazione in cui la città diventava luogo fruito da tre tipi di popolazione “diverse” per funzione: i residenti, i pendolari e i “consumatori” di città (Haddock 2004).
Ognuno di questi fruisce della città in tempi e modalità diverse per vari aspetti. I residenti sono suddivisi in varie categorie sociali: un crescente numero di anziani spesso soli ma affezionati al loro luogo di origine, oppure immigrati da poco insediati, e in buona parte da normali famiglie italiane. I pendolari, tendenzialmente composti da giovani e adulti, si spostano via treno, auto e bus per vari motivi di lavoro o studio.
Infine crescerà notevolmente una nuova fascia di “consumatori” urbani, composta generalmente da persone che hanno l’esigenza saltuaria di spostarsi da un luogo all’altro, sia urbano che extra-urbano, ad esempio il consumatore vero e proprio che si muove per fare “shopping”, oppure il turista straniero, ma anche i proprietari delle seconde case al mare o montagna, eccetera.
Va da sé, che a seconda del periodo dell’anno o della giornata, le città sono diversamente popolate, mutando continuamente il proprio ruolo da “dormitorio” a luogo di lavoro o di consumo.
Per quanto attiene lo sviluppo edilizio, negli anni Ottanta inizia una lunga serie di trasformazioni all’interno del perimetro cittadino, da un lato si cerca di saturare quelle grandi superfici di edilizia diffusa, passando in queste aree da uno sviluppo di tipo estensivo a quello intensivo, cercando così di occupare e monetizzare lo spazio residuo, ma ciò amplifica i discreti problemi di urbanizzazione primaria e secondaria, dall’altro lato si cerca di coinvolgere alcuni isolati o porzioni di tessuto urbano della città compatta e mista.
Si moltiplicano gli interventi di ristrutturazione urbanistica, riqualificazione o recupero urbano sui tessuti esistenti, in cui da un originario organismo produttivo, dismesso dalla fine degli anni Settanta, se ne ottiene un altro diverso, con funzioni quasi sempre miste, come residenziale, commerciale e direzionale.
Esiste anche un altro modello di sviluppo che prevede il potenziamento di alcuni piccoli insediamenti, formatisi intorno alle rete infrastrutturale, in altre parole ad uno sviluppo di tipo distrettuale, con il decentramento e formazione di “isole” urbane distaccate dalle città, all’interno delle quali si vanno a collocare oltre alle residenze molte attività produttive e servizi che cercano di allontanarsi dalla città compatta. Quelle che fino a due decenni fa erano semplici frazioni con pochissima edifici nel giro di pochi anni crescono di spessore rispetto al loro baricentro, e non avendo tutti i servizi che la città può offrire, la popolazione residente grazie alla mobilità veicolare, si sposta continuamente da un luogo all’altro.
L’edilizia residenziale muta ancora i suoi aspetti generali, cambia nuovamente l’assetto planivolumetrico degli edifici: nell’onnipresente piano seminterrato s’inseriscono gli spazi per i garage, il piano terra è riservato alle attività commerciali medio-piccole, il piano primo è non di rado riservato alle attività direzionali, mentre i piani superiori sono esclusivamente residenze.
Il lotto fondiario è sempre più scavato per intero toccando i confini, diventando suolo artificiale <<Lanzani 2003>>, il tutto perché molti strumenti urbanistici, in conseguenza della Legge Tognoli, considerano la volumetria interrata non utile per il calcolo dei sempre più costosi oneri di urbanizzazione, lo stesso dicasi per i sottotetti.
La tipologia edilizia si è uniformata su due tipi edilizi, i villini a schiera e le palazzine.
I primi, generalmente hanno un piano interrato ad uso garage ma che in realtà assume funzione di taverna o tinello, mentre l’automobili sono parcheggiate in strada; la zona giorno si trova al piano terra, la zona notte al piano primo e poi c’è il sottotetto, che di fatto diventa una bella mansarda abitabile; l’accesso avviene attraversando un modesto resede principale con scarso verde privato, e sul retro c’è un resede tergale, molto spesso trascurato per la sua invisibilità, oppure una rampa carrabile di accesso ai piani seminterrati.
Per quanto riguarda le palazzine, la loro forma si disarticola ancora e persistono i corpi aggettanti, generalmente si elevano su tre/quattro piani fuori terra, con circa dieci/quindici appartamenti e garages ubicati nel piano interrato e raggiungibili da uno spazio a comune.
Il costante incremento degli oneri e dei prezzi immobiliari condizionano il taglio e la distribuzione interna degli appartamenti, sempre più piccoli e ben rifiniti, perciò oggi i soggetti immobiliari allargano la propria offerta commerciale con alloggi di diverse metrature e vani.
Al piano terra ci sono le piccole attività commerciali-direzionali, oppure molte piccole residenze (monolocali o bilocali), con ingresso indipendente e un ristretto resede urbano quasi completamente pavimentato. Dal piano primo al penultimo piano ci sono gli appartamenti con superfici crescenti in rapporto all’altezza dal suolo, tutti con doppi servizi, termosingoli con caldaia posta in bellavista sulle facciate esterne. L’ingresso non esiste più, così come i corridoi, entrambi risucchiati nel nuovo spazio-fulcro della casa, cioè il soggiorno-pranzo-cucina, che assorbe anche la funzione di salotto.
Questa zona-giorno postmoderna è collegata alla zona notte da un nuovo spazio di cerniera chiamato disimpegno, spesso di superfici ridottissime, mentre è raro trovare un ripostiglio. Le facciate delle palazzine sono “circumnavigate” di terrazze, e con notevoli superfici e aggetti, ma invece di essere usati per la visione del panorama urbano, la presenza di diversi tipi d’inquinamento e lo sprawl architettonico fanno sì che esse divengano ripostigli a cielo aperto, considerato il fatto che anche questi spazi non rientrano generalmente nel calcolo degli oneri concessori.
L’ultimo piano è riservato alla committenza più facoltosa in grado di acquistare un magnifico attico libero (o quasi) su tutti i lati dell’edificio, anche se nei progetti risulta qualificato come un sottotetto, il cui volume non incide sul calcolo degli oneri, infine gode di un regime fiscale migliore per la scarsa rendita catastale attribuibile.
Le palazzine hanno uno spazio condominiale esterno con funzione puramente ornamentale, e uno interno di accesso, consistente nel vano scala con ascensore, l’ampio androne ormai è diventato un ricordo. Con l’inizio degli anni Ottanta entra in crisi un altro spazio umano storico, il condominio: decenni prima era uno spazio collettivo vero e proprio, in cui i condomini dialogavano tra loro, si aiutavano, i bimbi giocavano insieme, mentre da questo decennio in poi perderà tutte queste caratteristiche di socializzazione e diventa solo uno spazio di attraversamento, in cui è indispensabile la presenza di un amministratore esterno perché le persone perdono lentamente la capacità di relazione, a causa della dilagante isteria ed insofferenza reciproca. Le caratteristiche costruttive non variano molto, la struttura portante è fatta completamente in cemento armato, sia i tamponamenti che i tramezzi si eseguono solamente con laterizi forati e i rivestimenti esterni sono prevalentemente in intonaco civile, spesso accompagnati da laterizi o pietrame di ogni tipo, ultimamente tipo “pietra artificiale”.
Le pavimentazioni esterne e pubbliche, a seguito di normative per il rischio idraulico, tendono ad essere sempre meno impermeabilizzate con l’uso di tozzetti autobloccanti in calcestruzzo o laterizi. Le nuove costruzioni residenziali diventano sempre più simili tra loro e decontestualizzate, e il loro decoro esterno deve rispecchiare l’immagine interna e il relativo stato sociale, per potersi distinguere dal resto. Ciò implica anche la formazione di quartieri residenziali di prestigio rispetto ad altri, per questo anche i prezzi immobiliari si differenziano moltissimo, a tal punto che si assiste alla formazione di quartieri costruiti esclusivamente in maniera che solo un particolare ceto se lo possa permettere, ma questo processo investe anche i tessuti urbani della città compatta, migliorando o peggiorando le caratteristiche d’alcune aree, secondo le quali gli immigrati scelgono di insediarsi.
L’edilizia residenzale dalla fine degli anni Ottanta e dai primi anni Novanta cessa il suo decennale processo d’espansione, accompagnata dall’acutizzarsi della crisi dell’industrializzazione e il rafforzamento del terziario; nella città compatta aumenta il degrado dei molti edifici industriali da anni lasciati in stato di abbandono, e si fa sempre più pressante la necessità di provvedere alla loro trasformazione. Si assiste alla formazione dei molti “vuoti” urbani esistenti, che poi la crescente speculazione immobiliare considera sempre più come nuovi possibili contenitori di espansione.
Iniziano così i primi interventi di recupero o riqualificazione urbana che demoliscono molti edifici dismessi e ricostruiscono un organismo completamente diverso dal precedente, una struttura avente funzioni miste, commerciale al piano terra, direzionale al piano primo, parcheggi al piano interrato e residenziale ai piani superiori. Molti lotti urbani cambiano faccia pur mantenendo i propri confini, si assiste ad una serie di sostituzioni radicali di tasselli nel puzzle urbano (Lanzani 2003).
Questi interventi produrranno edifici con indici di fabbricabilità abbastanza alti a causa della frequente problematica ambientale e dei costi di bonifica dei siti, spesso inquinati dalle passate attività produttive, a causa della passata normativa ambientale molto tollerante rispetto a oggi.
Da una parte l’esigenza degli operatori immobiliari di rendere conveniente l’intervento, dall’altra l’interesse della pubblica amministrazione a migliorare il decoro urbano d’aree dismesse ubica nella città compatta, ha posto le condizioni per aumentare la volumetria edificabile e l’altezza massima, cosicché molti di questi nuovi edifici emergono dal tessuto urbano dominando lo sky-line.
Si è più volte manifestata una certa indecisione circa il futuro assetto planivolumetrico di questi nuovi spazi misti, in particolar modo il difficile nodo riguardava la sagoma e l’involucro edilizio, che aveva due possibili scenari: il primo, prevedeva il mantenimento più o meno marcato della sagoma rispettando un po’ i canoni dell’archeologia industriale, mentre il secondo, diametralmente opposto al primo, aspirava ad ottenere un involucro indipendentemente diverso dal precedente, possibilmente incrementando il più possibile la volumetria e i rapporti di copertura.
Gli interventi di sostituzione urbana a partire dagli anni Novanta iniziano a coinvolgere non solo la residua edilizia produttiva dismessa, ma anche la moderna edilizia residenziale della città compatta, con particolare riguardo ai lotti con bassi indici edilizi e di copertura, che confrontati al metodo costruttivo odierno appaiono ridicoli.
Al solo scopo di speculare sulla maggiore volumetria ammissibile prevista nelle zone di saturazione, si verifica la demolizione di villini monopiano o al massimo su piano rialzato, posti all’interno del lotto e distaccati da altri edifici, per costruirvi la palazzina descritta precedentemente, ed è un vero peccato rimuovere le costruzioni simbolo del Miracolo economico italiano, ma si sono verificati anche numerosi interventi meno massicci come ristrutturazioni e sopraelevazioni.
Dalla metà degli anni Ottanta in poi, si è detto che la città cessa di espandersi, o al limite si verificano piccole espansioni concentrate in lottizzazioni periurbane, andando a saturare i bordi sfrangiati delle periferie esistenti, in cui gli edifici residenziali hanno maggior numero di unità immobiliari, in prevalenza bilocali e trilocali, con dimensioni degli appartamenti che si riducono.
La popolazione è sempre più attenta alla qualità nell’abitare, tendenzialmente cerca di allontanarsi dai centri urbani e pertanto si guarda al riuso dei numerosissimi casali, coloniche, poderi sparsi nelle campagne e abbandonati negli anni Cinquanta e Sessanta.
Questi enormi edifici hanno notevoli superfici interne, sono elevati su due piani fuori terra e con antica struttura costruttiva; per essi inizia una lunga stagione in cui saranno ristrutturati e deruralizzati, in molti casi svuotati per essere rimodellati secondo le moderne esigenze abitative. Molta edilizia rurale, che fortunatamente riesce a mantenere l’originario involucro edilizio, al suo interno vedrà l’inserimento delle stesse caratteristiche costruttive e distributive della nuova edilizia residenziale, con morfologia d’unità residenziali con sviluppo in senso verticale (a schiera) oppure in senso orizzontale con appartamenti di discreta metratura. La frenetica tendenza al riuso degli edifici rurali è accompagnata dall’affermazione del nuovo tipo di turismo nazionale ed internazionale, cioè l’agriturismo o turismo verde. Si forma una nuova opportunità economica tesa a conciliare la funzione residenziale moderna con l’agricoltura e il turismo, che diventa sempre più esigente e di qualità, e quindi col passare del tempo l’agriturismo si appoggia al turismo paesistico.
A una buona parte dell’edilizia rurale esistente si cerca di enfatizzare le proprie caratteristiche, magari “scrostando” le facciate esterne degli intonaci originari per alimentare l’effetto di rusticità, oppure si assiste alla creazione di uno spazio esterno ricostruito nei minimi dettagli e con vero materiale antico, proveniente da alcuni edifici tipici smontati scientificamente pezzo dopo pezzo, tanto che si è sviluppato un discreto giro di affari attorno al riuso del materiale edile, al punto che sui quotidiani si è letto di alcuni episodi di furto di tegole nei ruderi abbandonati. Molte volte la committenza facoltosa ha semplicemente restaurato l’edificio campagnolo riportando per intero le originarie caratteristiche tipologiche formali, ma altre volte una committenza di tipo medio ha imposto dei connotati contraddittori tra il “dentro” e il “fuori”, cioè l’aspetto estetico esterno riproduce i tipici canoni della ruralità, mentre all’interno vi è uno spazio che deriva completamente dall’edilizia post-moderna.
In questi stessi anni si riafferma un generale interesse di tutela e salvaguardia delle identità culturali locali e soprattutto il patrimonio “paesaggio” diventa motore di sviluppo locale.
Le normative nazionali diventano più severe limitando l’edificazione in luoghi meritevoli come zone costiere, montane, collinari e nella campagna, anche se ormai era troppo tardi, gli scempi erano già stati compiuti. Ma il fenomeno di sprawl urbano continua a dilagare imperterrito sotto varie forme di abusivismo edilizio, che assume toni preoccupanti in alcune regioni meridionali ma anche al Centro-Nord, abusivismo che di fatto poi viene tollerato con tre condoni edilizi e la mancata applicazione della normativa di ripristino dei luoghi, inattuabile sia per motivi politici che socio-economici.
In Toscana, il paesaggio rurale ha subito molte trasformazioni che hanno portato alla sostituzione di molti oliveti sparsi, seminativi arborati e vigneti a girapoggio con oliveti a filari e vigneti a rittochino, aumentando tra l’altro il dissesto idrogeologico, ma comunque è riuscito a mantenere il proprio fascino attrattore, anche se in questi luoghi si è assistito alla costruzione di molti annessi per supportare un’attività agricola di tipo saltuario, gestita da persone che non sono coltivatori a tempo pieno.
A partire dagli anni Ottanta, anche lo spazio del commercio conosce una nuova stagione di straordinaria trasformazione che tuttora è in corso, con il diffondersi dei nuovi centri commerciali. Sono nuovi contenitori urbani, che possiedono (giustamente) uno spazio pubblico come nucleo attorno al quale si affacciano svariati piccoli negozi di diversa natura merceologica, ma vi si affacciano anche dei supermercati specializzati o meno in particolari reparti commerciali, ma ciò che li rende simili ad una città è la massiccia presenza d’attività terziarie e di tempo libero come uffici in franchising, palestre, sale giochi, bar, fast-food, cinema. (Fa riflettere una recente vicenda riguardante un ragazzo e una ragazza che s’innamorano, ed entrambi erano commessi in grosso centro commerciale fiorentino. All’interno vi trascorrevano dodici ore il giorno, compreso anche il tempo libero, e, di fatto, uscivano dal loro inconscio luogo di schiavitù solamente per andare a dormire a casa. Dopo alcuni mesi, si accorsero che la loro vita era contenuta in questo limitato spazio chiuso, perciò sentirono il bisogno di licenziarsi entrambi per recuperare la loro soffocata libertà di movimento!).
I centri commerciali s’insediano in aree appositamente zonizzate, difficilmente sono isolati tra loro, anzi, la loro vicinanza è il punto di forza, coadiuvato peraltro dall’innesto con le nuove strade mercato, che attirano sempre più i consumatori dall’esterno.
La loro struttura non è progettata solamente all’interno, ma anche all’esterno, spesso, infatti, sono circondati oltre che da enormi parcheggi auto, da estesi parchi urbani ma che di fatto sono scarsamente utilizzati, viene pertanto da pensare se siano stati costruiti per dare un immagine ecologica all’intervento o forse per un’inconsapevole senso di colpa, ma più probabilmente dobbiamo la loro realizzazione alla normativa che prevede il rispetto di determinati standard urbanistici.
Metaforicamente parlando, si ripresentano come una forma post-moderna di città-stato o acropoli, li differenzia il fatto di non poter assolvere la funzione residenziale (per quanto tempo ancora?). Oltre alla presenza di diverse attività, lo spazio pubblico collocato all’interno per molti motivi ha messo in crisi quello tradizionale, facendoli diventare contrapposti e in competizione tra loro.
Esso è costantemente climatizzato, pulito a dovere e controllato da una vigilanza privata, al contrario molti centri storici tradizionali sono sporchi, degradati e insicuri. Il centro commerciale, è una struttura che ha alle spalle una concezione di tipo anglosassone, in cui la sua origine trova più giustificazione rispetto a quella mediterranea a causa del loro clima più rigido, ma l’inarrestabile processo di globalizzazione diffonde e uniforma a ritmi sempre più serrati modi, stili, tecniche e teorie, che miscelandosi tra loro creano una nuova cultura post-moderna o globale, analoga all’Esperanto nel linguaggio.
Gli insediamenti delle nuove grandi strutture di vendita si dispongono contiguamente alle zone artigianali, dove sono presenti moltissime attività di medie e grandi dimensioni, che non possiedono processi produttivi altamente inquinanti. Si crea una specie di commistione tra produzione e vendita, ma colpisce maggiormente la contrapposizione d’immagine che li distingue: l’area commerciale possiede e deve mantenere l’aspetto decoroso, invitante e di sicurezza, in grado quindi di attirare popolazione consumatrice per la sua specifica spettacolarità, l’area produttiva comunemente possiede un aspetto molto degradato, e molte volte assomigliano ad un gran retro celato dalle aree commerciali.
Queste nuove aree, oltre a svolgere funzione commerciale e produttiva, stanno anche inglobando la funzione del tempo libero e dell’intrattenimento, assuefatte alla logica del consumo di massa; si sta moltiplicando la costruzione di centri multifunzionali o polivalenti, che ospitano al piano terra funzioni commerciali, d’intrattenimento come locali pubblici e anche di spazio pubblico, al piano interrato ormai domina il grande parcheggio interrato, mentre ai piani superiori ci sono gli spazi di svago e tempo libero come cinema multisala, teatro, sale giochi, pubs, fast food, discoteche. La creazione di uno spazio così variegato non poteva che attirare nelle loro vicinanze le attività ricettive come gli alberghi e i ristoranti, configurandosi come un gigante organismo del tempo libero e dello shopping, alternativo al tradizionale centro storico.
La costruzione dei nuovi centri commerciali e dei centri multifunzionali di cui sopra, oltre a gettare lo spazio pubblico in crisi profonda, stanno determinando un forte indebolimento delle piccole strutture commerciali poste nei centri storici e nelle periferie delle aree metropolitane.
Il rischio è che entro poco tempo i centri storici, tranne quelli delle città d’arte, siano esposti ad un’ulteriore fase di degrado socio-economico, che sembra una contraddizione rispetto ai numerosi interventi di riqualificazione, restauro e rifacimento effettuati negli anni Novanta e Duemila. L’immagine del centro storico si sta sfortunatamente adeguando ai cambiamenti globali in corso, il franchising sta sostituendo i tradizionali negozi con altri aventi interni tutti omologati, che ritroviamo ripetuti in tutte le diverse città e pure nei centri commerciali, in particolare si stanno assottigliando le categorie merceologiche e prevale sempre più l’abbigliamento. (riflettendo l’immagine della diffusa mentalità pressappochista e del nuovo pensiero superficiale delle nuove generazioni).
Ancora più impressionante e la loro accelerata metamorfosi, che cambia continuamente le proprie sembianze oltre a quelle della cortina muraria in cui sono inserite, neppure un abituale consumatore non riesce a conservare una propria geografia percettiva, spesso circola nelle vie del centro, sia commerciale o storico, e rimane meravigliato perché trova negozi e spazi diversi, rimanendo disorientato e ancor più insicuro e incerto.
Altro aspetto che ha peggiorato l’immagine dei centri storici italiani è il vertiginoso aumento degli immigrati al loro interno, sia come residenti che con le loro attività commerciali o di servizi, e stanno sostituendo lentamente gli italiani, soprattutto la popolazione anziana che non viene rimpiazzata dai loro discendenti. Il fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria è molto complesso e non si può scivolare in banali generalizzazioni, ma ormai si possono tracciare alcune linee guida sulla loro tipologia insediativa. Gli immigrati tendono a localizzarsi nelle città secondo alcune generiche consuetudini, in parte variabili nei diversi contesti. I maghrebini non si concentrano in particolari aree, generalmente apprezzano la periferia sufficientemente servita e molti di essi prediligono l’alloggio in affitto in cui risiede un primo nucleo di pochi maschi che, appena possibile, fanno procedura di ricongiungimento familiare; molti di essi scelgono di affrontare lavori più o meno usuranti, a causa della loro mancanza di istruzione.
I filippini si insediano in piccoli gruppi all’interno di alcune aree a basso costo immobiliare, spesso i centro storici in degrado, formano alcune micro-comunità che riescono a dialogare parzialmente con la popolazione locale, con cui è riuscita ad intrecciare rapporti di lavoro come badanti, governanti o infermieri, e all’interno di questa etnia prevale il numero di individui femmine.
Gli albanesi, in gran parte confluiti in Italia e “fuggiti” dalla patria d’origine negli anni Novanta, si sono integrati molto bene perché la televisione italiana ha trasmesso per molti anni nel loro paese creando in loro l’illusione/sogno di benessere. Gran parte di essi svolge mansioni lavorative usuranti, ma una parte ha preferito la micro e macro criminalità, rendendosi immediatamente conto che la Giustizia Italiana stava cadendo a pezzi, andando ad incrementare assai gli elevati tassi di criminalità presenti nel nostro Paese. Gli albanesi si insediano in aree a basso costo immobiliare, e quindi anch’essi scelgono pessime periferie o centri storici degradati, formando micro-comunità abbastanza solidali tra loro.
Senza entrare in maggior dettaglio, gli abitanti provenienti dall’Africa centrale e meridionale, hanno spesso un buon livello d’istruzione, proprio perché le loro famiglie gli permettono di affrontare l’esperienza migratoria; molti di essi, pur essendo in possesso di ottimi titoli di studio, svolgono per necessità anche lavori usuranti in attesa di poter migliorare la propria posizione economica e familiare, inoltre il loro livello di integrazione è buono, a causa della loro originaria struttura sociale di tipo afro-tribale, infine, si localizzano in ordine sparso in quasi tutta la città. Più complesso e negativo è l’aspetto che riguarda la comunità cinese: in gran parte il flusso migratorio che li ha portati in Italia (e soprattutto concentrati in alcune aree metropolitane) è di origine clandestina neo-schiavistica, lasciando immaginare anche una certa complicità tra le due nazioni coinvolte.
Essi provengono generalmente da una particolare provincia cinese, sfortunatamente per loro e per l’economia italiana una buona parte di loro inizia a lavorare per un certo periodo in condizioni a dir poco bestiali sotto tutti i punti di vista, finché non riescono a saldare il loro debito morale e materiale col loro protettore. Grandissima parte di essi non riesce (e non vuole) integrarsi, solo alcuni di loro per motivi di lavoro, parlano sufficientemente l’italiano, perfino i loro figli hanno gravi difficoltà di apprendimento scolastico della lingua.
Preferiscono localizzarsi e concentrarsi in alcune aree a basso costo immobiliare, scarsamente visibili, (un po’ come la loro terribile mafia) come aree artigianali e industriali o periferie degradate, ma non i centri storici. Spesso la loro residenza coincide col luogo di lavoro, una media impresa che nel giro di pochi anni è riuscita a sbaragliare alcuni settori economici manifatturieri, grazie all’irrisorio costo della manodopera che offrono. Il problema peggiore è che l’economia che si instaura nelle loro comunità o China-Town è di tipo chiuso, per cui gran parte del denaro italiano che incassano non rientra nel ciclo economico nazionale, aggravando ancora di più la dilagante crisi di alcuni distretti economici.
D’altronde, gli operatori economici dovrebbero adesso fare una riflessione oggettiva: non potevano sperare di sfruttare a pro loro la povertà e la struttura sociale della comunità cinese, avrebbero dovuto immaginare che prima o poi questi immigrati avrebbero appreso sufficiente conoscenza per diventare poi concorrenza spietata, ma l’ingordigia ossessiva degli imprenditori, insieme al buonismo/lassismo italiano ha generato i problemi di cui sopra.
Limitando qui la descrizione circa l’odierno fenomeno dell’immigrazione, si trova opportuno fare una breve analisi in proposito. Questi comunità, suddivise in base alle loro diverse etnie di appartenenza, hanno alcuni punti in comune, ma uno di questi è fondamentale per poter svolgere un interessante osservazione, cioè la loro mancata crescita nella cultura postmoderna. Essi provengono da paesi in un cui le condizioni culturali, economiche e sociali fanno si che lo spazio pubblico per loro significhi molto, e questa consuetudine resiste molto bene anche dopo il loro insediamento in Italia. Facciamo attenzione agli immigrati: escludendo ovviamente coloro che per motivi di clandestinità sono costretti a vivere come fantasmi, ma molti di essi riescono a vivere la strada, la piazza o anche il marciapiede davanti l’alloggio proprio come lo vivevano gli italiani alcuni decenni fa, passandoci tempo a scambiare quattro parole tra amici, mentre l’italiano medio, ormai incapace di fare altrettanto si sente insicuro e non si comporta analogamente, rimane rintanato in casa davanti alla televisione oppure sente la necessità di spostarsi dallo in auto da casa, e nel suo immaginario crede che essi stiano invadendo lo spazio urbano più velocemente della realtà.
Oltre a quanto sopra, la mancata totale integrazione ha creato un clima di reciproca distanza tra italiani e immigrati, per cui le diverse comunità e gli italiani creano una sorta di “sfera” personale o comunitaria, una spazio psicologico inventato che crea rispettiva sicurezza, che non può essere inciso da individui diversi. Ciò permette in un certo senso fenomeni sociali di esclusione, autoesclusione e marginalità, in cui le diverse comunità si equidistanziano tra loro e dagli italiani, con cui entrano in contatto per motivi di lavoro e altre pochi motivi, secondo diverse modalità.
Riflettendo sulle “nuove invasioni barbariche”, è più che naturale che l’identità storica/sociale delle città vada via via assottigliandosi, probabilmente un residuo riuscirà a permanere nei prossimi decenni, ma ormai l’errore è stato compiuto e la politica lassista italiana non intende porre rimedio.
Mentre il dibattito politico ripete i soliti argomenti di rivalutazione, valorizzazione, rilancio e recupero delle nostre città, i nostri centri storici sono invasi sempre più da popolazione alloctona, così pure alcune grosse porzioni di periferia. Le città d’arte riescono a mantenere più forte la loro identità culturale, grazie alla loro unicità mondiale che riesce a catalizzare benefici economici, ma se questa capacità non riuscisse più a funzionare, anche questi patrimoni urbani sarebbero esposti a rischio di degrado e contaminazione culturale.
La Techno-city come punto d’arrivo?
Dai primi anni Novanta la tecnologia sta entrando sempre più nelle nostre vite, nelle città e nel territorio, sconvolgendo abitudini, ritmi, rapporti sociali e infine il paesaggio. Non se gli storici siano d’accordo in merito, ma si ritiene che abbia avuto inizio un’ultima rivoluzione industriale, o meglio ancora la prima rivoluzione informatica. L’elettronica e l’informatica hanno ormai iniziato a dominare la nostra epoca, uno scrittore ha più volte ipotizzato che “la tecnologizzazione e la globalizzazione fossero fenomeni appaiati e rigidamente controllati da un’elite globale, che intende acquisire il potere mediante la più silenziosa delle nuove armi, la tecnologia” <<Isckhe 2001>>.
La strategia ipotizzata, per quanto possa apparire bislacca, non è del tutto fuori luogo, anche se molto complessa. Lo scrittore fa un’attenta riflessione sulla lunga serie d’operazioni economiche nazionali e internazionali che hanno portato alla formazione d’imponenti multinazionali in grado di controllare grandi regioni globali. Da qualche tempo molte aziende hanno portato a termine numerose fusioni o alleanze, persiste una generale tendenza all’unificazione, anche a livello politico il mondo occidentale capitalista ha ampliato i propri confini assorbendo gli stati dell’ex blocco sovietico, anche il nuovo colosso mondiale, la Cina, sta lentamente trasformando la propria struttura per avvicinarsi a quella globale. Facendo un salto di scala, la geografia che ci circonda in pochi decenni ha subito il più grande cambiamento, in principio c’era una fitta rete di piccole città e paesi mentre adesso ci sono aree e città metropolitane che si estendono per decine di chilometri.
Il passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo ha portato alla creazione della “techno-city”, in pratica uno spazio per metà reale e per metà virtuale. Tutte i tipi d’insediamento, d’ogni ordine e grandezza sono diventate di fatto techno-cities, ognuno di esse ha un diverso grado di connessione con qualunque altra del pianeta, perfino la casa isolata nel territorio aperto si può considerarla come un suo frammento distaccato ma comunque connesso. La rivoluzione digitale mosse i primi passi dalla fine degli anni Settanta, durante gli anni Ottanta si assiste ad una sua lunga fase di perfezionamento, ma il boom avviene nei Novanta, in cui le prestazioni dei computer aumentano a livello esponenziale, essi diventano attrezzi indispensabili per quasi ogni lavoro, ma assumono anche altre interfacce: diventano strumenti di gioco, di compagnia, di studio, eccetera.
Ma il lato oscuro, che è emerso alla fine del secolo scorso, è il serio rischi di controllo della riservatezza individuale, il che comporterebbe un rischio gravissimo se si materializzasse un entità in grado di governare (naturalmente dietro le quinte dei governi ufficiali) tutte queste tecnologie, sempre più interconnesse tra loro. Ormai sul pianeta è in funzione una fittissima rete tecnologica multimodale, infatti, la tecnologia è diventata un bene di consumo per le masse. Ma più che di rivoluzione tecnologica forse è meglio parlare di rivoluzione della comunicazione, che ha notevolmente coinvolto tutto il territorio. Gran parte del territorio è servito/controllato dalla tecnologia, basti pensare alla televisione analogica, digitale e satellitare, oppure alla telefonia mobile, che copre la quasi totalità del suolo anche minimamente antropizzata. Solo questi due cambiamenti, tra l’altro molto ravvicinati come tempi tra loro, ha avuto pesanti ripercussioni sul paesaggio urbano e rurale, con l’esponenziale installazione di parabole, antenne digitali, ripetitori cellulari. A proposito di quest’ultimi, la loro presenza ha invaso quasi totalmente ogni lembo di territorio, di fatto non esiste più un territorio incontaminato dalla tecnologia e dall’elettromagnetismo, che Dio solo sa quali reali effetti avranno sull’uomo e sulla natura.
La tecnologizzazione non ha avuto solo effetti estetici, ma sta sconvolgendo ulteriormente i metodi di relazioni sociali, solamente gli anziani riescono a non esserne schiavi. Gli adulti si sono adeguati alle nuove forme e tecnologie che hanno fatto prepotente ingresso nel settore terziario e secondario, i giovani invece oltre ad usufruire di tecnologia per scopi didattici ne fanno uso anche per il tempo libero. Sta cambiando il metodo classico di relazionarsi col prossimo, si affermano nuovi linguaggi che incideranno sulla futura urbanistica. E’ noto che l’urbanistica rifletta le condizioni psicologiche e sociologiche degli abitanti, perciò è lecito porsi dubbi in riguardo al futuro spazio pubblico generale, il rischio che esso sia sostituito da uno virtuale è già concreto; questa generazione, si sta abituando sempre più a dialogare con i mezzi multimediali, cioè una comunicazione di tipo virtuale tra due individui . La tecnologizzazione ci sta rendendo sempre più abitanti di due spazi contemporaneamente, quello reale e quello virtuale, dal punto di vista percettivo l’essere umano si trova quindi posto in un nuovo confuso semi-spazio, frutto dell’intersezione tra i due precedenti. Una prima conseguenza che è ben visibile a tutti è il distacco della persona dallo spazio locale, una logica di disappartenenza dal suolo, che si manifesta sotto varie forme, un indicatore eccezionale è la quantità di rifiuti presenti sulle strade. Spaventosa e inquietante. Il lettore mai riflettuto a quanto siano sporchi i lati delle strade? Il pendolare e il consumatore che le attraversa vi getta spesso qualcosa con indifferenza, ma banalmente tale gesto non lo farebbe nel suo minuscolo giardino privato della casa a schiera; (al contrario, giorni fa alcune persone anziane spazzavano nella via dove risiedono da sempre).
Questo banale esempio serve a richiamare l’attenzione del lettore sulle potenziali patologie di cui le techno-cities stanno già soffrendo, che sono d’origine prettamente sociale. Nella nuova era della techno-cities crescono angosce e paure, ansie ed insicurezze, sia dal punto di vista sociale che economico. Da un lato accelerano la quantità e la velocità di cambiamento del mondo reale che ci circonda, e questo altera in noi il senso percettivo di comprensione dello spazio e quindi confonde la nostra sfera personale, nel tentativo di comprendere e interpretare gli eventi socio-economici. Ormai da più di un decennio i sistemi economici occidentali capitalisti non riescono più a produrre ricchezza sufficiente e a distribuirla più o meno uniformemente alla popolazione, sono entrati in crisi perché il prodotto interno lordo delle nazioni capitaliste è sempre più fondato sul settore terziario, che non crea ricchezza ma semplicemente la trasforma, un po’ come avviene per l’energia. Inconsciamente, gli abitanti delle techno-cities hanno percepito questo senso d’insicurezza, coloro che possono permetterselo cercano di uscire dal “circolo” metropolitano, o almeno a limitarne i contatti. (Sempre più spesso la gente spera di allontanarsi su un’isola oppure in aperta campagna, anche se magari non lo farà mai, ma questi pensieri ricorrenti confermano il sottile disagio che l’abitante cova nel suo animo).
Dal punto di vista urbanistico, la techno-city persegue il modello di sviluppo e crescita avviato dalla metà degli anni Ottanta, ma il livello di speculazione non aveva mai toccato questo livello, ogni minima superficie potenzialmente edificabile è sfruttata al massimo, le cosiddette aree di completamento vengono subito assalite dalla vorace edilizia privata, nelle aree di saturazione i corpi di fabbrica esistenti vengono trasformati per sfruttare la massima capacità edificatoria del momento, con la scientifica sostituzione di patch urbane.
Bibliografia
Serena Vicari Haddock, 2004, La città contemporanea.
Arturo Lanzani, 2003, I paesaggi italiani.
Guido Martinetti, 1993, Metropoli.
Isckhe, 2001, La verità vi renderà liberi
Bernardo Secchi, La città europea contemporanea e il suo progetto
AA.VV, Cortei neri e colorati: migranti ed esclusione sociale nella nuova geografia dello sviluppo
Sergio De La Pierre,2001, Per una sociologia del progetto
AA.VV, 2001, Rappresentare i luoghi
Emilio Sereni, 1961, Storia del paesaggio agrario italiano
Moretti, 1996, Le strade
Paul Ginsborg, 1989, Storia dell’Italia repubblicana
Tutti i diritti sono riservati – all rights reserved
CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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