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Coloro che ritengono legittimo una stato preesistente soltanto perchè c’è stato un utilizzo continuato, cadono in errore.

Immaginiamo una costruzione realizzata con regolare licenza edilizia e che una parte di essa sia stata destinata ad uso commerciale, con tanto di Agibilità.

Poi negli ultimi venti anni questa stessa porzione viene utilizzata e affittata ad uso direzionale uffici, magari con tanto di quella che una volta era l’autorizzazione commerciale.

E infine, immaginiamo che questa porzione venga immessa in vendita o trasformata considerandola già con destinazione d’uso uffici. Cioè, ipotizzando che la destinazione d’uso “ufficiale” o legittima sia quella di fatto, perchè avvenuta per un discreto lasso di tempo.

Coloro che credono nell’esistenza di un meccanismo di “legittimo affidamento” o “prescrizione urbanistica”, cadono in errore.

Al contrario, la situazione preesistente o di fatto non è l’elemento su cui basarsi per lo stato legittimo dell’immobile.

La fattispecie della sentenza n. 4662/2020 del Consiglio di Stato

Un caso simile è stato trattato nella sentenza del Consiglio di Stato n. 4662/2020, che riprende a sua volta un principio fondamentale ribadito (e ripetuto) dall’Adunanza Plenaria n. 9/2017:

<<la situazione di fatto di un immobile, contra o praeter legem, non è elemento idoneo a sostituire il titolo edilizio e nemmeno può legittimarne l’assetto anche da un punto di vista giuridico. Al contrario, è pacifico e ripetutamente ripetuto che il carattere sanzionatorio e doveroso del provvedimento esclude la pertinenza del richiamo alla motivazione dell’interesse pubblico e “la selezione e ponderazione dei sottesi interessi risulta compiuta – per così dire – ‘a monte’ dallo stesso legislatore (il quale ha sancito in via indefettibile l’onere di demolizione al comma 2 dell’articolo 31 del d.P.R. 380 del 2001), in tal modo esentando l’amministrazione dall’onere di svolgere – in modo esplicito o implicito – una siffatta ponderazione di interessi in sede di adozione dei propri provvedimenti.>>

In altre parole, lo stato preesistente dell’immobile non legittima da un punto di vista amministrativo. Confidare in questa direzione significa escludere l’evoluzione storico urbanistica dell’immobile.

Ed è per questo motivo che le difformità o irregolarità dell’immobile non possono essere in alcun modo “glissate” dietro situazioni di fatto, ancorché presenti da decenni senza che la P.A. abbia mai obbiettato niente.

Situazione di fatto non legittima lo stato costruttivo dell’immobile.

Mi verrebbe da aggiungere che esiste l’eccezione a questo principio, ma vale per un risicato margine di casi. Pensiamo cioè alla remota situazione di immobili realizzati in epoche risalenti, per i quali la documentazione è pressoché muta o insufficiente.

Per esempio un caso particolare è l’abitazione agricola situata in un antico edificio rurale in territorio aperto, magari mai accatastato. Per esso non risulta rinvenibile nessuna documentazione precisa che possa attestare lo stato dei luoghi o l’evoluzione. Gli atti notarili possono fornire una descrizione sommaria, ma non sufficiente per datare l’attuale distribuzione interna.

Poi si arriva al 2012, termine ultimo per accampionare questi immobili rurali mai censiti, e in tal caso il silenzio o carenza delle fonti documentali non permette altro che rappresentare lo stato di fatto (comunque con le riserve di possibile emersione di documenti passati).

Ecco, al netto quindi di eccezioni particolari, il regime repressivo deve considerare irrilevante la situazione preesistente dell’immobile, da cui potrebbero emergere illeciti e abusi edilizi.

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carlo pagliai

CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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