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La Cassazione Penale ha rammentato con recente sentenza i principi per effettuare recupero del patrimonio edilizio esistente

Resta ancora controversa la distinzione tra categorie di intervento disciplinate dall’art. 3 comma 1 del Testo Unico Edilizia DPR 380/01, anche alla luce delle profonde revisioni effettuate dalle leggi n. 34/2022 e n. 91/2022.
In particolare i confini tra ristrutturazione edilizia leggera, pesante e nuova costruzione sono da considerarsi labili e dinamici.

Ne abbiamo parlato a lungo in apposito corso online sulle demolizioni e ricostruzioni che puoi visionare su Realexpert.it.

In particolare la sentenza di Cassazione Penale n. 1669/2023 ha puntualizzato un criterio, tra i tanti, per distinguere tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, riguardante un caso dove un intervento di demolizione di edifici rurali e casa colonica (in zona agricola) per ricostruire con aumento di cubatura un complesso residenziale composto da dieci villini in linea e 24 stalli a parcheggio con copertura fotovoltaica.

Indubbiamente in questa fattispecie si è superata la soglia delimitante la categoria di nuova costruzione, rispetto a quella di ristrutturazione edilizia, rispettivamente descritti dall’art. 3 comma 1 del TUE.

Giustamente qualcuno potrebbe far notare che per “nuova costruzione” si debba intendere soltanto il caso di costruzione ex novo, partendo da un lotto inedificato; tuttavia tale categoria di intervento, proprio nell’art. 3 comma 1 lettera e) DPR 380/01 appare come residuale rispetto a tutti gli interventi di manutenzione, restauro e ristrutturazione descritti in precedenza ad esso.

Pertanto, certe ristrutturazioni ricostruttive di manufatti esistenti verso altri organismi edilizi diversi possono configurare “sostituzione edilizia”, sfociante nella nuova costruzione.
In altre parole, la sostituzione edilizia equivale ad una nuova costruzione ancorché effettuata su lotto con manufatti preesistenti, e certamente nei casi diversi da quelli rientranti in ristrutturazione “pesante” dell’art. 10 DPR 380/01.

La predetta sentenza di Cassazione Penale ha suscitato allarme a diversi soggetti, e siccome da essa non si rinvengono alcuni riferimenti e date (titoli abilitativi rilasciati, ricorsi amministrativi, ordinanze demolizione, ecc.) mi devo esprimere con riserva. Tra l’altro sono curioso di vedere se tale orientamento troverà sponda anche nella giurisprudenza amministrativa. Tra l’altro segnalo come valido spunto la riflessione pubblicata dall’Avv. Andrea Di Leo.

Diciamo pure che la sentenza è rilevante perché fa riferimento alla categoria di ristrutturazione edilizia descritta all’art. 3 comma 1 lettera d) DPR 380/01, modificata dall’art. 10 D.L. 76/2020 “Semplificazioni” convertito in L. 120/2020 (peraltro modificata ben due volte nel 2022 dalle leggi n. 34 e n. 91).

Al netto di queste considerazioni, ritengo opportuno estrapolare dei principi utili per individuare la distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione.

Certamente, anche nel corso di formazione online sulle Demolizioni e Ricostruzioni abbiamo raccomandato più volte il principio di continuità tra organismo edilizio ristrutturato e quello preesistente; sconfinare nella sostituzione edilizia in effetti è un soffio, in base alle tipologie di immobili, zonizzazione e vincoli vari.

Rapporto tra organismo edilizio ristrutturato e preesistente

Anche stavolta devo mettere in guardia sulle normative regionali sul governo del territorio, che potrebbero aver disciplinato le ristrutturazioni edilizie in maniera non proprio congruente col DPR 380/01: rammento pure che in ambito penale i giudici non conoscono normativa regionale che tenga.

Il criterio fondante della ristrutturazione, che pur con l’ampiezza operativa concessa ai sensi dell’articolo 3 attualmente vigente, impone, comunque, per rispettare la ratio dell’intervento e la distinzione rispetto ad altre operazioni edilizie, e in particolare rispetto alle “nuove costruzioni”, un connubio materiale o comunque funzionale e identitario, tra l’edificio originario e l’immobile frutto di ristrutturazione.

Riprendendo il principio riportato anche nella predetta sentenza, «ciò che distingue, infatti, gli interventi di tipo manutentivo e conservativo da quelli di ristrutturazione è, indubbiamente, il carattere innovativo di quest’ultima in ordine all’edificio preesistente; ciò che contraddistingue, però, la ristrutturazione dalla nuova edificazione è la già avvenuta trasformazione del territorio, attraverso una edificazione di cui si conservi la struttura fisica (sia pure con la sovrapposizione di un “insieme sistematico di opere, che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”), ovvero la cui stessa struttura fisica venga del tutto sostituita».

Anche il Consiglio di Stato si già espresso verso la stessa direzione, con sentenza n. 3750/2022:

il concetto di ristrutturazione non può ontologicamente prescindere dall’apprezzabile traccia di una costruzione preesistente, mancando la quale non si ravvisa il tratto distintivo e fondamentale che caratterizza la ristrutturazione rispetto alla nuova edificazione, atteso che la ristrutturazione è strumentale alla sempre più avvertita esigenza di contenere il consumo di suolo

Modifiche e variazione degli organismi edilizi preesistenti sul lotto: la controversia

Quali sono i limiti da rispettare affinché si possa mantenere la categoria di ristrutturazione edilizia ex art. 3 comma 1 lettera d) del DPR 380/01?

Ce ne sono diversi da verificare congiuntamente, e in questo articolo si vuole focalizzare la configurazione delle sagome e distribuzione planivolumetrica degli organismi edilizie ante-post opera.

Per dire meglio: anche a parità di volumetria, un intervento che demolisca tutti i manufatti esistenti per riconfigurarne sagome e sedime “ovunque disposti”, può superare la definizione di ristrutturazione edilizia?

Una risposta trapela dalla sentenza di Cassazione Penale n. 1669/2023, la quale esclude la fusione o frazionamento delle sagome volumetriche tra corpi di fabbrica e organismi edilizi diversi; sarebbe come dire che la ristrutturazione edilizia, riformulata dopo il D.L. 76/2020, debba continuare ad applicarsi autonomamente e separatamente per ciascun organismo di edilizio in partenza.

«In altri termini, seppure la recente novella del 2020 abbia contribuito a delineare la possibilità di interventi di ristrutturazione fortemente innovativi rispetto all’organismo preesistente, tanto che alcuni criteri prima utilizzati dalla legge e giurisprudenza, per sancire la corrispondenza tra i due organismi interessarti appaiono via via sfumati o scomparsi (quali, in sintesi, con riferimento in particolare a zone non vincolate, la fedele ricostruzione comprensiva di limitate innovazioni, oppure, poi, la medesima sagoma/volumetria o, ancora, l’identità del sedime), permane il requisito, insuperabile, per cui deve pur sempre trattarsi di interventi di recupero del medesimo immobile ancorché trasformato in organismo edilizio in tutto o in parte diverso. Per cui, in tale quadro va esclusa la moltiplicazione, da un unico edificio, di plurime distinte strutture o, di converso, l’assorbimento di plurimi immobili in un unico complesso edilizio».

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Col D.L. 76/2020 la definizione di ristrutturazione edilizia (art. 3 c.1 lett. d) TUE) è cambiata notevolmente, con la sostituzione del riferimento ai semplici interventi di:

  1. demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica

con la più articolata previsione per cui rientrano nella ristrutturazione edilizia:

  • gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”;

Nella prima definizione (ante DL 76/2020) non c’è dubbio che l’intervento di demolizione e ricostruzione rientri in ristrutturazione edilizia qualora riguardi distintamente un organismo edilizio in partenza, per essere trasformato in solo altro organismo in arrivo; praticamente trasformazioni distinte 1 a 1, senza poter mescolare, fondere o dividere organismi diversi rispetto alla configurazione di partenza, a meno di non voler rientrare in sostituzione edilizia (cioè nuova costruzione).

La sentenza di Cassazione Penale n. 1669/2023 tra le motivazioni spiega che «la conferma della ontologica necessità che l’intervento di ristrutturazione edilizia, pur con le ampie concessioni legislative (DL 76/2020, ndr) in termini di diversità tra la struttura originaria e quella frutto di “ristrutturazione”, non possa prescindere dal conservare traccia dell’immobile preesistente, è fornita dallo stesso art. 10 sopra già citato, integrativo dell’art. 3 comma 1 lett. d) del DPR 380/01, laddove si premette che le novelle introdotte rispondono “al fine di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini e delle imprese, nonché di assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente e lo sviluppo di processi di rigenerazione urbana, decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo.
Anche la lettura stessa del citato articolo 3 del DPR 380/01 depone in tal senso, laddove, da una parte, definisce come ristrutturazione “gli interventi edilizi volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso”, dall’altra, distingue rispetto ad essa gli “interventi di nuova costruzione” ( art. 3 comma 1 lett. e), che sono strutturalmente connotati dalla assenza di una preesistenza edilizia. In altri termini, con riguardo alla ristrutturazione non vi è spazio per nessun intervento che lasci scomparire ogni traccia del preesistente».

Sembra che la principale motivazione derivi dal primo periodo riguardante la definizione generale ristrutturazione, avente per oggetto la trasformazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso: uno soltanto, e perciò si obbligherebbe a mantenere una certa continuità storica degli organismi all’interno dello stesso lotto di pertinenza, ciascuno separatamente dal l’altro.

Mi vien da pensare che con questa impostazione, le modifiche di accorpamento o frazionamento delle/tra costruzioni esistenti porti a configurare sostituzione edilizia, facendo attenzione anche alla ristrutturazione urbanistica (art. 3 comma 1 lettera f) TUE).

Nella seconda definizione di ristrutturazione edilizia, invece c’è una parola che non piace molto, e che temo rafforzi la tesi “separatista” evidenziata in Cassazione Penale n. 1669/2023: “sagoma” al singolare invece che plurale “sagome”. Il termine disposto al singolare in effetti potrebbe aiutare l’interpretazione rigida che intravede l’obbligo di continuità tra ogni singolo organismo di partenza con quello di arrivo, senza possibilità di riconfigurare con aumento o diminuzione nessuno dei corpi di fabbrica interessati.

Per assurdo questa linea di pensiero ricomprenderebbe in ristrutturazione edilizia la demolizione e ricostruzione “separatamente e diversi” di tre edifici preesistenti sul lotto edificato, ma non ricomprenderebbe l’accorpamento di due costruzioni nel lotto.
In sostanza sarebbero da considerare esclusi dalla categoria di ristrutturazione edilizia ogni intervento che utilizzi la cubatura preesistente per ricostruirla con soluzioni e sagome planivolumetriche assai innovative.

Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”.

Mi sono chiesto anche se questa linea interpretativa “rigida” si fosse già affermata anche in giurisprudenza amministrativa, ma al momento dalle mie ricerche ho riscontrato soltanto una sentenza TAR Genova n. 188/2022 che muove nella stessa applicazione rigida:

A tal riguardo la nozione di demolizione e ricostruzione, cui occorre fare riferimento in assenza di una definizione specifica stabilita dalla l.r. 49/09, è contenuta all’art. 3, comma 1, lett. d.p.r. 380/01 che prevede: “Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico”. Orbene la norma non contempla la demolizione e il successivo recupero del volume per accorparlo ad altro edificio.

Se dovesse prevalere questa linea, allora non riuscirei a capire l’utilità della definizione di ristrutturazione edilizia novellata dal D.L. 76/2020, visto che rimarrebbe sempre circoscritta a ricostruire diversamente ma separatamente ciascun edificio presente sul lotto, senza poterli mai fondere o suddividere con altri.

Se l’intento del legislatore fosse stato quello di concedere maggiore libertà ricostruttiva sul lotto edificato, mi sa che servirà un ulteriore correttivo.

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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