La Giunta comunale approva i piani attuativi qualora compatibili con lo strumento urbanistico generale vigente, il Consiglio Comunale quando comporta variante ad esso.
Tecniche di pianificazione volte ad equalizzare la distribuzione dei benefici derivanti da diritti edificatori.
A mio avviso la Perequazione urbanistica è implicitamente contenuta nella Legge Fondamentale 1150/42: la prima legge regolante la disciplina della pianificazione urbanistica italiana è L. 1150/42, la quale fu emanata dopo una serie di provvedimenti normativi che in qualche modo tentavano di regolamentare la disciplina edilizia da una parte, e le relative leggi speciali riguardanti l’approvazione dei piani regolatori.
Una bellissima legge contenente ottimi spunti di filosofia e diritto urbanistico, in cui il tema della città pubblica, o della parte pubblica della città, è preminente.
D’altronde, da una legge voluta da un regime dittatoriale nazionalista non poteva essere altrimenti; la L. 1150/42 è figlia di coloro che volevano esaltare l’orgoglio italiano della propria eccellenza nelle arti, nel lavoro e nella storia.
Tale norma sembrava riflettere una grande visione di un movimento politico che, nel bene e nel male, si muoveva con un approccio di lungimiranza, al contrario di quella fase politica che seguì nel periodo postbellico, più orientata a “vivacchiare” e navigare a vista.
Intendiamoci: non intendo fare apologie di questo o quel movimento, bensì analizzare le tracce che ineluttabilmente han lasciato nella storia urbanistica italiana.
Nella L. 1150/42 emerge più volte il tema della sviluppo urbano unitario in funzione degli spazi pubblici.
Non appariva invece la dizione di perequazione urbanistica, anche se mi sembra di leggerlo in via embrionale nelle impostazioni dei Piani particolareggiati di iniziativa pubblica coinvolgenti proprietà privata.
Peccato che questi strumenti attuativi siano stati del tutto disattesi a favore de pressoché totale sbilanciamento a favore delle iniziative private.
E’ per questo che il ricorso alla lottizzazione urbanistica su iniziativa privata, da strumento straordinario, è diventato strumento di uso consueto per lo sviluppo insediativo; al contrario, il piano particolareggiato divenne raro come una mosca bianca.
Dopo “neanche” venticinque anni dalla L. 1150/42, e quindi all’indomani dell’emanazione della Legge “Ponte”. n. 765/1967 e del conseguente D.M. 1444/68, emerse l’evidente scompenso formatosi nella eccezionale crescita urbana.
La realizzazione della città pubblica, intesa come insieme di somma degli spazi, attrezzature e zone aventi funzioni destinate alla collettività, aveva assunto ruolo minoritario rispetto alla imponente crescita urbana dell’attività edilizia privata.
La principale causa di questo problema era la mancanza di adeguata pianificazione e dotazione degli idonei strumenti urbanistici di molti comuni.
Emerse l’esigenza di emanare un provvedimento perentorio come la Legge Ponte e il DM 1444/68.
Le procedure finalizzate alla crescita degli insediamenti, attuate a mezzo di piani di lottizzazione, presentavano il problema della sperequazione dei benefici economici derivanti dalla mancata equa redistribuzione di essi tra tutti i proprietari dell’area oggetto di lottizzazione.
In altri termini: è mancata l’abitudine di usare un approccio unitario nelle dinamiche di trasformazione del territorio.
Tale mancanza ha portato di converso al frequente approccio della sperequazione, cioè uno sbilanciamento dei vantaggi economici tra i diversi proprietari derivanti dal differente zoning nelle aree interessate.
Si ha sperequazione in quanto, per esempio, le scelte pianificatorie portano ad avvantaggiare i proprietari delle aree ove ricadono le volumetrie edificabili e a penalizzare quelle aventi minori volumetrie o peggio ancora da vincoli di inedificabilità preordinati alla trasformazione/cessione di spazi pubblici.
Invece si sa bene che il reperimento di aree destinate alle attrezzature pubbliche, o a quelle strutture che prenderanno il nome di standard urbanistici, è avvenuto attraverso le misure espropriative.
Perequazione urbanistica, una sorta di regime “condominiale” edificatorio.
Un approccio unitario al progetto e alla sua fase attuativa porta a considerare virtualmente l’area o zona oggetto di intervento come un unicum, superando tutte le parcellizzazioni interne in termine di frazionamento delle aree, dei relativi indici di edificabilità e vincoli di città pubblica.
L’evidente scopo è quello di considerare in maniera unica l’area per raggiungere gli obbiettivi e di redistribuire vantaggi e svantaggi in misura equa tra tutti i comproprietari dell’area, e trovo calzante il parallelo con la ripartizione per quote millesimali che si effettua nei bilanci di ogni condominio privato.
L’approccio unitario (o condominiale) della perequazione urbanistica porta inoltre l’indubbio vantaggio della cessione volontaria al Comune delle aree finalizzate a diventare spazi e attrezzature collettive, nonchè standard urbanistici; inutile sottolineare gli evidenti vantaggi legati anche alla pianificazione ed attuazione dell’urbanizzazione stessa, che si effettua in pieno coordinamento con lo strumento urbanistico generale.
Proporre interventi con l’approccio della perequazione urbanistica implica un atteggiamento mentale “nazionalistico” di tutti i proprietari delle aree, assai opposto a quello tipicamente individualista italiano.
Si tratta infatti di una approccio in cui il singolo privato rinuncia ai vantaggi personali scompensanti altri, per scegliere una ottica “comunitaria” dell’azzonamento.
Tra perequazione urbanistica ristretta e allargata.
Esistono due raggi di azione territoriale su quali applicare la tecnica della perequazione urbanistica, e sono due:
- ristretta: riguarda un’area o zona definita dall’intervento ben definita ma non coinvolgente l’intero territorio comunale (Es. l’attuazione di un comparto edificatorio ben definito e in maniera autonoma)
- ampliata: può arrivare a coinvolgere aree situate in tutto il territorio (Es: trasferimento di volumetrie in “decollo e atterraggio” tra zone diverse);
La perequazione ampliata richiama a sua volta il tema dei vincoli di destinazione e asservimento tra aree “coniugate”, cioè zone diverse e neppure confinante situate all’interno del territorio comunale.
Perequazione, compensazione e premialità urbanistica.
Per quanto abbiano molti punti in comune, sono tre modalità di attuazione e intervento edilizio che differiscono per certi aspetti:
- perequazione: punta a realizzare l’intervento attuativo come unicum, coronato dalla cessione al Comune delle aree destinate ad uso collettivo;
- compensazione: si pone come valida alternativa all’esproprio delle suddette aree riconoscendo, in luogo dell’indennizzo monetario, l’assegnazione di quote di edificabilità su altre aree già in possesso o permuta di aree aventi idonea edificabilità.
- premialità (volumetrica): spesso utilizzata per incentivare l’innalzamento qualitativo dell’intervento stesso, prevedendo all’interno della sola area oggetto di intervento incrementi volumetrici aggiuntivi quale misura “endo-compensativa” per mitigare il maggior costo che il titolare si accolla;
Le premialità molto spesso sono state inserite nelle legislazioni regionali e in pochi strumenti urbanistici per avviare, seppure timidamente, una stagione di rigenerazione urbana.
Lo stato dell’arte normativo della perequazione urbanistica.
Un piccolo passo avanti è stato fatto con l’approvazione del D.L. n. 70/2013 (art. 5, comma 3) convertito in Legge n. 106/2011, che ha tipizzato il contratto del trasferimento delle cubature e volumetrie, ma si è trattato di un semplice recepimento di quanto la giurisprudenza aveva riconosciuto legittimo da anni.
Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 616/2014 si è espresso in maniera critica sull’attuale applicazione della perequazione urbanistica in assenza di una legge quadro, e sopratutto nel rispetto dell’ormai cinquantennale D.M. 1444/68 sugli standard urbanistici (consiglio questa video intervista con Edoardo Salzano).
Infatti il Consiglio di Stato fa presente che tra localizzazione degli standard urbanistici e l’intervento deve esistere una stretta correlazione spaziale reciproca, volta a garantire il tema della qualità edilizia nelle zone interessate: si tratta infatti del principio madre del D.M. 1444/68.
In particolare emerge il possibile contrasto tra i rischi derivanti dalla massimizzazione dei diritti edificatori a scapito della fruizione privata e/o collettiva di certe attrezzature o standard pubblici, ancorché finalizzati a rendere più efficace il reperimento dei suoli con finalità collettive e per distribuire equamente i vantaggi della rendita fondiaria. Su tale punto mi trovo concorde, sottolineando che il problema nasce dalla vetustà e inadeguatezza dell’attuale D.M. 1444/68.
Un altro aspetto rilevante che il Consiglio di Stato solleva riguarda la mancanza di una disciplina nazionale in materia di perequazione urbanistica, che non può neppure essere “temporaneamente” superata dalle legislazioni regionali in quanto la Corte Costituzionale con sentenza n. 121/2010 ha statuti che « le previsioni, relative al trasferimento ed alla cessione dei diritti edificatori, incidono sulla materia ordinamento civile, di competenza esclusiva dello Stato».
Nel concludere, il Consiglio di Stato ribadisce il proprio fermo orientamento che colloca lo standard urbanistico spazialmente e funzionalmente in prossimità dell’area di intervento edilizio, al fine di legare strettamente e indissolubilmente commoda e incommoda della modificazione sul territorio.
Si pone quindi il problema di come inquadrare questa modalità di sviluppo attuativo da un punto di vista giuridico e di legittimità, seppur animati dal rendere l’azione amministrativa più efficiente e ridurre certamente contenziosi espropriativi.
Quindi è auspicabile un necessario intervento normativo sulla materia.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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