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Entro quali limiti e condizioni è possibile derogare ai requisiti minimi di Abitabilità dei micro-alloggi

Esistono poche forme di Agibilità in deroga ai requisiti igienico sanitari, cioè l’attestazione di conformità ai requisiti richiesti per abitare alloggio e utilizzare immobili con destinazione d’uso diverse. La prima è ammessa dalla disciplina del Condono edilizio ai sensi della L. 47/85 articolo 35, l’altra invece è stata inserita nell’articolo 24 T.U.E. con L. 105/2024 “Salva Casa”, anch’essa con particolari limiti e condizioni. In questo articolo parliamo soltanto della prima ipotesi.

Troppo piccoli certi monolocali

Le dimensioni dei monolocali in determinati contesti ad alta tensione abitativa sono diventate eccessivamente ridotte, raggiungendo costi ai limiti della decenza da una parte, e ai limiti della minima qualità insediativa. E’ pacifico, o quanto meno dovrebbe esserlo già, che la salubrità delle abitazioni deve rispettare alcuni standard: garantire una sufficiente circolazione e ricambio d’aria è sempre stato uno degli obbiettivi della materia urbanistico edilizia. Il fatto è che in certi contesti abitativi si è assistito ad un incontrollato fenomeno di frazionamento e realizzazione di alloggi monostanza, di dimensioni inferiori perfino ai nuovi minimi derogati dal Salva Casa (20 e 28 mq rispettivamente per una e due persone).

Qualcuno ha sostenuto che siano regolari perchè oggetto di condono edilizio, ma come meglio evidenziato nel seguente video o nel proseguimento del post, anche il rilascio del condono di per sé non permette di derogare situazioni in contrasto alle norme igienico sanitarie vigenti.

Ma anche nei casi di avvenuto ottenimento di concessione edilizia in sanatoria e di Abitabilità in deroga col condono, non si nasconde che potrebbero essere oggetto di annullamento per carenza dei requisiti di abitabilità. Infine il Comune potrebbe dare diniego alla domanda di condono per carenza dei requisiti igienico sanitari, non derogabili oltre i limiti parziali previsti dall’articolo 35 L. 47/85.

Abitabilità in deroga col Condono L. 47/85

Si torna a parlare di quelle casistiche ritenute astrattamente sanate e condonate con procedure ammesse dalle tre leggi speciali di Condono Edilizio L. 47/85, L. 724/94 e L. 326/03, spesso rinvenibili su mansarde, cantine, autorimesse e soppalchi con altezze minime inferiori ai 2,70 metri. Molti pensano di aver regolarizzato ogni profilo con l’avvenuto rilascio della concessione edilizia in sanatoria, e magari hanno ottenuto pure il rilascio dell’Abitabilità in deroga ai sensi dell’articolo 35 L. 47/85, capace di derogare requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità statica, di prevenzione incendi e infortuni. 

Anche se la procedura di Condono edilizio ammetteva teoricamente il rilascio automatico dell’Abitabilità in deroga, questa possibilità è stata oggetto di sentenza di Corte Costituzionale n. 256 depositata nel 18 luglio 1996, affermando che la deroga potesse trovare applicazione soltanto verso le norme regolamentari locali del comune preposto al rilascio, senza poter derogare anche le disposizioni di grado superiore previste da norme sovraordinate o di legge.

In definitiva poteva derogare il regolamento edilizio, mentre non era ammesso nei confronti delle norme e prescrizioni minime previste da norme nazionali. La motivazione espressa nella sentenza costituzionale è la seguente:

« La deroga non riguarda, infatti, i requisiti richiesti da disposizioni legislative, e deve, pertanto escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità pur nella più semplice forma disciplinata dal d.P.R. n. 425 del 1994 a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 del testo unico delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del d.P.R. n. 425 del 1994), ma, altresì, quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica, quali quelle a tutela delle acque dall’inquinamento, quelle sul consumo energetico, ecc.. »

Ciò significa che col rilascio automatico dell’Abitabilità in deroga non può superare i limiti e requisiti minimi previsti dalle norme, ancorché sopravvenute successivamente all’epoca dell’abuso edilizio.

Comune può negare il condono in assenza dei requisiti igienico sanitari? Risposta affermativa.

In tal senso è intervenuto anche recentemente il Consiglio di Stato con sentenza n. 9752/2023, confermando corretto il diniego di rilascio sanatoria rilevando che «i due soppalchi realizzati aventi altezza ognuno di mt 1,95 ed adibiti a “ripostiglio” non permettono ai vani sottostanti dell’appartamento di avere un’altezza utile di mt. 2,70 ed al bagno di mt. 2,40, causandone inabitabilità così come disposto dal D.M. 05/0/1975. Tali norme, che attengono alla tutela della salute, non sono derogabili ai fini dell’abitabilità».

Con questa motivazione è stata confermata la possibilità di dare diniego alla istanza di condono perché la configurazione finale dell’immobile non poteva giungere ad una successiva utilizzabilità, dovendo ottenere il rilascio del necessario certificato di Abitabilità. In altre parole in nome di una efficacia dell’azione amministrativa è stato ritenuto inutile arrivare a condonare un immobile quando in seguito non si possa legittimamente abitarlo o utilizzarlo per mancato rispetto dei requisiti sanitari. E a poco serve giustificare che l’abuso sia stato commesso in epoca remota o anteriore alle relative norme igienico sanitarie, come il D.M. 5 luglio 1975. In sostanza, quando un immobile viene condonato non diventa in automatico agibile. E’ necessario che sia conforme e idoneo alle norme tecniche di abitabilità, sia alle leggi sanitarie (Cons. Stato n. 4664/2023, n. 6091/2021).

Riguardo all’interpretazione della trascritta norma il Consiglio di Stato, con sentenza n. 9752/2023, ha trattato a lungo la questione spiegando che:

«il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, ai sensi del citato art. 35 comma 20 l. n. 47 del 1985, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale (Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140; 13 aprile 1999 n. 414).

Tale orientamento risulta, peraltro, del tutto coerente con quello espresso dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza 18 luglio 1996 n. 256, ha affermato che la deroga introdotta dall’art. 35, comma 20, “non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità… a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del D.p.r. 425/94), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica…. Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari”.

Orbene, alla luce della giurisprudenza riportata e della lettura costituzionalmente orientata della norma, resa dalla Corte Costituzionale, appare evidente che non è possibile ritenere che l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 contenga una deroga generale ed indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, e ciò proprio perché – come chiarito sempre dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata (e già prima con sentenza n. 427/1995) – la detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e dall’altro il diritto all’abitazione e al lavoro.

Una interpretazione che validi una deroga “generale” alla normativa a tutela della salute, con particolare riguardo al luogo di abitazione, si porrebbe, dunque, in contrasto non solo con l’art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, proprie della legge n. 47/1995.

Pertanto, mentre possono essere derogate norme regolamentari, non possono esserlo norme di legge, in quanto rispetto ad esse la deroga non è evocata nell’art. 35, comma 20.

Tanto precisato, appare evidente come – nel definire l’ambito della deroga – non può assumere esclusiva rilevanza il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione (e della norma da essa espressa) ad una fonte primaria (come tale non derogabile) ovvero ad una fonte secondaria (quindi derogabile), ma occorre verificare se le specifiche condizioni igienico-sanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, quale ulteriore e specifica esigenza da essi rappresentata con riferimento a specificità di quel singolo territorio, ovvero si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni primarie.

In altre parole, l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso evitare che singole, specifiche disposizioni regolamentari – espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate – possano costituire, ex post, mediante il diniego del certificato di abitabilità, ostacolo al condono, e quindi alla regolarizzazione, delle costruzioni abusive, frustrando l’esigenza di “rientro nella legalità”, che, per il tramite della detta legge, si è inteso attuare.

Ma, allo stesso tempo, la citata disposizione non ha inteso porre nel nulla la tutela igienico-sanitaria degli edifici e, quindi, il diritto alla salute dei cittadini.

In tal senso, occorre ricordare che l’art. 218 R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie) prevede, tra l’altro:

“I regolamenti locali di igiene e sanità stabiliscono le norme per la salubrità dell’aggregato urbano e rurale e delle abitazioni, secondo le istruzioni di massima emanate dal Ministro della sanità.

I detti regolamenti debbono contenere le norme dirette ad assicurare che nelle abitazioni:

a) non vi sia difetto di aria e di luce;

b) lo smaltimento delle acque immonde, delle materie escrementizie e di altri rifiuti avvenga in modo da non inquinare il sottosuolo;

c) le latrine, gli acquai e gli scaricatoi siano costruiti e collocati in modo da evitare esalazioni dannose o infiltrazioni;

d) l’acqua potabile nei pozzi, in altri serbatoi e nelle condutture sia garantita da inquinamento”.

Appare evidente come tale disposizione, per un verso, affida ai regolamenti, in generale, di stabilire le norme per la salubrità delle abitazioni; per altro verso, impone a tali regolamenti (con ciò esprimendo un precetto normativo di rango primario) di assicurare che nelle abitazioni, tra l’altro, non vi sia “difetto di aria e di luce”, vi siano congrui servizi igienici, etc.

Allo stesso modo, il successivo art. 221 prevede che possa essere concessa l’abitabilità ad un edificio, allorché, tra l’altro, “non sussistano altre cause di insalubrità”.

In definitiva, laddove le condizioni concrete di un immobile rendano il medesimo tale da non essere ritenuto abitabile, poiché esse si pongono in contrasto con il rispetto della dignità umana (art. 2 Cost.) e del diritto alla salute (art. 32 Cost.), o, più specificamente, con le condizioni richiamate dagli artt. 218 e 221 TULS, non rileva che la specifica condizione di inabitabilità trovi letterale richiamo in una norma di regolamento comunale (o che ad essere citata negli atti amministrativi sia proprio e solo quella norma), poiché quanto obiettivamente constatato contrasta direttamente con le indicate norme primarie e con il contenuto precettivo di disposizioni costituzionali.

Ne consegue che, in tali ipotesi, non può trovare applicazione la deroga prevista dal più volte citato art. 35, comma 20, l. n. 47/1985».

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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