Anche gli interventi CILA-S sono soggetti al rispetto dello Stato Legittimo, pertanto niente immobili abusivi
Consiglio di Stato: termine diciotto mesi non computabile ante L. 124/2015, ma posteriormente
La revisione del termine ragionevole di annullabilità ha creato dubbi in regime transitorio.
C’è stata una lunga e articolata evoluzione normativa attorno all’art. 21-nonies della L. 241/1990, introdotto per la prima volta con l’art. 14, comma 1 della L. 15/2005.
Con esso veniva introdotto un principio volto a rendere efficace l’azione della Pubblica Amministrazione, finalizzato a garantire certezze e tempistiche chiare nel reciproco rapporto tra cittadino e PA.
La versione originaria dell’art. 21-nonies L. 241/1990, introdotta con L. 15/2005 era la seguente:
Art. 21-nonies (Annullamento d’ufficio).
1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
2. E’ fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole.
A prima vista una norma basata sul buon senso ma con stesura molto generalistica. E le norme incerte, si sa, generano contenziosi a non finire soprattutto quando si aprono zone grigie molto ampie.
Il termine ragionevole per l’annullamento in autotutela diventò un’ampia zona grigia.
Col passare degli anni emerse da subito l’esigenza di raffinare questa norma, entro la quale la PA può annullare una pratica edilizia.
Omettendo i passaggi intermedi per brevità, si approda alla Riforma Madia avviata con L. 124/2015, entrata in vigore il 28 agosto 2015, la quale ha profondamente ristrutturato e chiarito la procedura di annullamento in autotutela.
Con questa riforma fu definitivamente circoscritto l’ambito applicativo dell’annullamento in autotutela dei provvedimenti amministrativi illegittimi.
Essa dispose la possibilità di annullamento d’ufficio di essi entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici, inclusi i provvedimenti formatisi ai sensi dell’art. 20 della L. 241/90 (silenzio assenso).
Ti presento un video che ho pubblicato su YouTube prima di tutte queste novità:
La Riforma dell’Annullamento in autotutela ha rotto l’inesauribilità del potere amministrativo pubblico e riequilibrato i rapporti.
Ciò premesso, si omette il non meno importante aspetto circa la:
- valutazione comparata degli interessi dei destinatari e controinteressati al provvedimento stesso;
- la sussistenza delle ragioni di interesse pubblico rispetto all’affidamento nel privato;
La Riforma Madia avviata con L. 124/2015 e proseguita poi con i decreti legislativi 126, 127 e 222 del 2016, ha provveduto a ristrutturare e riequilibrare il rapporto tra cittadino e potere discrezionale della PA, allo scopo di garantire maggiore certezza e stabilità nei loro rapporti.
Essa si è basata su due importanti profili introdotti appositamente:
- fissazione termine ragionevole in diciotto mesi per adottare provvedimenti di annullamento d’ufficio relativi ad atti autorizzatori e attributivi di vantaggi economici (comma 1 art. 21-nonies L. 241/90);
- possibilità di annullare anche dopo tale termine i provvedimenti basati su dichiarazioni false, ma solo quanto essa è accertata in sede penale con sentenza passata in in giudicato;
Tra i provvedimenti formatisi col silenzio assenso vi rientrano a pieno titolo le pratiche edilizie come Segnalazione Certificata Inizio Attività (SCIA) e la Denuncia Inizio Attività (DIA).
Il termine ragionevole non può comunque superare i diciotto mesi. Questo è il nocciolo della questione.
Successivamente l’art. 2 comma 4 del D.Lgs. 222/2016, o Decreto ‘Scia 2’, ha avuto modo di precisare espressamente che il termine dei diciotto mesi decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente.
Su questo aspetto ne parlo anche nel video corso sul Decreto ‘Scia 2’, scopri di più iscrivendoti sul canale YouTube:
Quindi, per la SCIA edilizia, tale periodo è di trenta giorni dalla presentazione formale alla competente PA, sottolineando che fa fede la data di ingresso formale sia in modalità cartacea che telematica, a prescindere dall’eventuale assegnazione di numero protocollo postuma ad esso.
Il problema si è posto per SCIA presentate prima delle riforme amministrative avviate dalla Madia, e in particolare per le vecchie DIA che giacciono ormai sotto la polvere.
Cosa accade per le vecchia SCIA e DIA presentate in passato?
Il Consiglio di Stato ha rilevato il problema applicativo del regime transitorio, sul quale si erano formati da poco due orientamenti sul termine di diciotto mesi introdotto con L. 124/2015, secondo cui si applica:
- solo ai provvedimenti presentati dopo la stessa norma, soprattutto le SCIA, mentre le DIA avevano di fatto già ceduto il passo in molte legislazioni regionali (ex plurimis: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 17.3.2016, n. 351; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 22.9.2016, n. 4373; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 4.1.2017, n. 65; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-bis, 21.2.2017, n. 2670; T.A.R. Sardegna, Sez. I, 7.2.2017, n. 92);
- anche ai provvedimenti presentati prima della stessa legge, con termine di diciotto mesi decorrente dalla data di entrata in vigore della stessa L. 124/2015 ovvero il 28 agosto 2015.
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire la questione con la sentenza Cons. di Stato V. n. 250/2017, poi confermata anche dalla sentenza Cons. di Stato VI n. 3462/2017, e ha aderito al secondo orientamento, quello più estensivo e “virtualmente retroattivo”.
Ho scritto “virtualmente” apposta perchè in verità non si tratta di retroattività propria, in quanto nel diritto amministrativo vige il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi).
Secondo il Consiglio di Stato il termine di diciotto mesi della L. 124/2015 non può applicarsi in maniera retroattiva ad essa perchè taglierebbe in maniera eccessiva e irragionevole i poteri di annullamento in autotutela amministrativa rispetto al nuovo provvedimento legislativo.
Si arriverebbe all’assurdo che tali poteri verrebbero mutilati e preclusi automaticamente, in maniera altrettanto sbilanciata e contraria al principio di chiarezza dei rapporti tra cittadino e PA, principio fondamentale della stessa L. 124/2015.
DIA e SCIA presentate ante L. 124/2015: diciotto mesi decorrono dal 28 agosto 2015.
Il Consiglio di Stato con sentenze n. 250 e 3462 del 2017 ha statuito invece che l’operatività del nuovo termine ragionevole di diciotto mesi decorra dalla data di entrata in vigore della L. 124/2015 (28 agosto 2015) per tutti i provvedimenti amministrativi illegittimi adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990.
Si tratta di un principio rilevante perchè nel momento in cui scrivo, ovvero 9 gennaio 2018, praticamente tale termine per tutte le relative pratiche edilizie DIA/SCIA presentate prima della L. 124/2015 sono ormai in zona franca: il termine ultimo risulta infatti il 28 febbraio 2017, ormai passato.
Attenzione: resta sempre aperta la casistica dei casi in cui vi sia falsità dei presupposti nelle pratiche edilizie secondo il comma 2-bis dell’art. 21-nonies L. 241/1990, su cui ci tornerò presto sopra perchè anch’esso ha molti limiti applicativi rispetto a tanti bei discorsi teorici e di principio.
Tale aspetto infatti è stato recentemente analizzato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 8/2017 in adunanza plenaria dello scorso ottobre 2017, che per contraddizione, riaprebbe i giochi in regime di annullamento in autotutela nei casi in cui si ravvisa falsità nelle pratiche.
Testo integrale gratuito della sentenza Consiglio di Stato VI n. 3462/2017.
Tutti i diritti sono riservati – all rights reserved
CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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Sentenza Consiglio di Stato VI n. 3462/2017:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7210 del 2016, proposto da:
xxxx SRL e xxxxx SRL, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati (omissis) e (omissis) con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato (omissis); contro
COMUNE DI A****O, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato (omissis), con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato (omissis); per la riforma:
della sentenza del T.A.R. Campania, sezione II n. 4229 del 2016;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di A****O;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Dario Simeoli e uditi per le parti gli avvocati (omissis) per delega dell’avv. (omissis);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1.‒ La Società xxxx SRL ‒ proprietaria di due opifici industriali e di una palazzina di uffici, siti nel Comune di A****O, alla via Atellana, assentiti con permesso di costruire n. 57 del 2003 e successiva variante n. 4 del 2004 ‒ ha presentato in successione cronologica: a) in data 30 settembre 2009, una DIA (prot. n. 25176) relativa ad opere interne con destinazione ad attività commerciale di parte del pian terreno per attività di produzione e somministrazione di alimenti e bevande; b) in data 19 ottobre 2010, una SCIA (prot. n. 25061) relativa al mutamento della destinazione d’uso da locale deposito ad autorimessa; c) in data 2 dicembre 2010, una DIA avente ad oggetto interventi nel locale destinato ad autorimessa; d) in data 30 aprile 2012, una DIA (prot. n. 9584) relativa al mutamento di destinazione d’uso dei locali al piano seminterrato finalizzato alla realizzazione di una sala giochi. I locali al piano terreno ed al piano seminterrato sono stati concessi in uso (mediante fitto del ramo d’azienda) alla xxxxx SRL, la quale, oltre alla licenza di somministrazione ha ottenuto la licenza di pubblica sicurezza per l’esercizio della raccolta di gioco mediante scommesse.
1.1.– Con ordinanza n. 16 del 26.08.2015 ‒ impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ‒ il Comune di A****O ha revocato, ai sensi dell’art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990, le note n. 16355 del 26 giugno 2010 e n. 16610 del 28 giugno 2010 (con cui il settore urbanistica dell’amministrazione comunale aveva dato atto della destinazione commerciale del piano terra dell’immobile in questione) e ingiunto la demolizione ed il ripristino dello stato dei luoghi, contestando: – il cambio di destinazione d’uso del locale al piano terra da sala espositiva, di pertinenza dell’opificio industriale, a locale per attività di commercio, in quanto effettuato in assenza di permesso di costruire; – la realizzazione senza permesso di costruire di copertura dell’ingresso principale al fabbricato dalla via Medi, attraverso l’utilizzo di pannelli in plexiglass a volta su struttura in ferro, realizzando una superficie coperta pari a mq 29.00 e volume pari a circa mc 470.00; – l’ampliamento della superficie utile di pertinenza del piano terra, attraverso l’utilizzo, con funzione di sala ristorante e bar, del calpestio del solaio realizzato per incremento dell’ambiente al piano interrato, avente consistenza di mq 230.00 per un volume utile utilizzabile attraverso al copertura con tenda retrattile pari a circa mc 665.00; – realizzazione di locale deposito, costituito da struttura in lamiere coibentate e copertura inclinata con altezza media di ml 2.40 ed avente superficie di mq 18.00 circa e volume di mc 43.20.
1.2.‒ Con provvedimento del 7.10.2015, l’amministrazione comunale ha esercitato il potere di autotutela anche in relazione alla DIA (prot. n. 9584) del 30.04.2012 e, successivamente, ha ingiunto, con ordinanza n. 21 del 2015, il ripristino dello stato dei luoghi relativamente al piano seminterrato, disponendo altresì l’annullamento del certificato di agibilità n. 21 del 2012. L’amministrazione, con nota prot. n. 2378 del 3.11.2015, ha anche ritirato i titoli abilitativi in materia commerciale e, segnatamente, l’autorizzazione n. 305 del 21.2.2011 per l’attività di bar/ristorazione (per effetto dell’ordinanza di demolizione n. 16 del 26.8.2015), l’autorizzazione n. 84 del 22.2.2011 per l’attività di scommesse e giochi leciti, la SCIA del 18.1.2011 per l’esercizio di vicinato e la SCIA n. 17895 del 2.8.2011 per la rivendita di giornali. Tutti gli atti da ultimo citati sono stati impugnati con ricorso per motivi aggiunti.
2.‒ Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con sentenza n. 4229 del 2016, ha respinto il ricorso introduttivo e per motivi aggiunti sulla base dei seguenti argomenti.
Secondo i giudici di cure, l’esercizio del potere esercitato in relazione alla DIA presentata in data 30 settembre 2009 ‒ riqualificato dal giudici di prime cure in termini di potere (non di revoca ma) inibitorio “ex post” ‒ è giustificato dalla falsa rappresentazione e dichiarazione dello stato dei luoghi, nonché dalla non conformità dell’intervento con la disciplina edilizia ed urbanistica comunale. Dalla documentazione versata in atti emerge infatti che la DIA presentata in data 30 settembre 2009 non ha avuto ad oggetto il cambio di destinazione d’uso del piano terra da sala espositiva funzionale all’opificio industriale ad un uso commerciale, bensì opere individuate nella realizzazione di tramezzature, sostituzione della pavimentazione interna, dei rivestimenti, degli infissi interni ed esterni e l’installazione di impianti tecnologici ed altri interventi, sul presupposto che tali locali già avessero una destinazione commerciale. Sennonché, con il permesso di costruire n. 57 del 2003 e la successiva variante n. 4 del 2004 era stata legittimata unicamente la realizzazione, unitamente agli opifici (per lo stampaggio per termofusione di materie plastiche e la distribuzione di semilavorati in metallo), di un immobile composto dal piano interrato destinato a deposito, piano terra destinato ad esposizione, e piani primo, secondo e terzo aventi destinazione essenzialmente ad uffici. Per l’esecuzione degli interventi contestati era dunque necessario il previo rilascio del permesso di costruire. L’area sulla quale insiste il complesso, inoltre, è inserita nella Z.T.O. I2 – zona industriale del piano di fabbricazione, per la quale la disciplina comunale prevede espressamente: «la sostituzione, limitatamente all’attuale volume edilizio delle costruzioni industriali esistenti ed al completamento entro il periodo di validità del PDF nel rispetto del limite del 33% di superficie coperta dell’intera superficie di ogni complesso industriale».
Né è possibile sostenere che la destinazione commerciale sia ricompresa nell’ambito della destinazione industriale, venendo in rilievo attività del tutto autonome e tali considerate non solo alla stregua delle modifiche apportate al DPR n. 380 del 2001 dalla l. n. 164 del 2014 ma anche alla luce del complesso della disciplina edilizia ed urbanistica applicabile alla fattispecie (art. 9-bis delle N.T.A. del piano di fabbricazione).
Non pertinente si ritiene, inoltre, il riferimento di parte ricorrente alle previsioni del DPR n. 447 del 1998 ed alle altre disposizioni in materia di semplificazione contenute nel DPR n. 160 del 2010 al fine di sostenere la necessità di considerare un concetto di “attività produttive” in senso ampio ed omnicomprensivo, giacché la normativa richiamata è dettata ad altri e differenti fini, non incidendo sull’impianto delle prescrizioni e delle regole che governano gli interventi edilizi ed urbanistici.
Non sussiste neppure la violazione dell’art. 64 del d.lgs. n. 59 del 2010, dell’art. 3 della l. n. 148 del 2011, delle leggi regionali n. 1 del 2000 e n. 1 del 2014, in quanto gli interventi oggetto della DIA sono precedenti alle innovazioni normative sopra indicate, le quali comunque non sono idonee a legittimare l’esecuzione di interventi in assenza del necessario permesso di costruire.
Le deduzioni con cui parte ricorrente ha contestato l’insussistenza dei presupposti di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, sono infondate in quanto l’amministrazione ha esplicitato l’interesse pubblico concreto, attuale e prevalente costituito dall’incidenza dell’incremento del carico urbanistico conseguente alla esecuzione degli interventi sull’ordinato assetto del territorio e sulla vivibilità del contesto in correlazione con gli standard di riferimento.
Sotto altro profilo, alle modificazioni dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 introdotte dall’art. 6, comma 1, lettera d), n. 1) della l. n. 124 del 2014, non può attribuirsi carattere sanate dei provvedimenti illegittimi rilasciati precedentemente ai 18 mesi antecedenti all’entrata in vigore della norma, giacché un tale obiettivo mal si concilia con la dichiarata finalità di semplificazione procedimentale della norma in questione
Del pari infondate si palesano le contestazioni incentrate sulla violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, in quanto, a prescindere dall’adozione e notificazione del provvedimento di sospensione dei lavori, l’amministrazione ha per un verso provveduto alla doverosa adozione del provvedimento demolitorio in conseguenza dell’accertata esecuzione degli interventi in assenza del permesso di costruire e, quanto alle parti in cui ha esercitato i poteri di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, ha dimostrato in giudizio che la determinazione non avrebbe potuto essere diversa da quella in concreto adottata.
Da ultimo, con riferimento alla destinazione a sala giochi del locale seminterrato, inoltre, si sottolinea che l’art. 62 del regolamento edilizio comunale che nel vietare “di norma” che i locali al piano interrato possano essere utilizzati a locali di categoria A postula una valutazione “a monte” da parte dell’ente. Il certificato di agibilità n. 21 del 2012 era relativo ad un locale di categoria C1 mentre la sala giochi può insistere in base al regolamento edilizio comunale su locali aventi categoria A2.
3.‒ Le società xxxx SRL e la xxxxx SRL hanno quindi proposto appello avverso la sentenza da ultimo citata, chiedendo, in riforma della stessa, l’accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
La motivazione dell’impugnata sentenza sarebbe erronea nella parte in cui non avrebbe tenuto conto della modifica apportata all’art. 21-nonies della L. n. 241/1990 dall’art. 6, lettera d), della l. n. 124/2015, il quale prescrive il termine perentorio di 18 mesi entro il quale l’Amministrazione può agire in autotutela che, nel caso di specie, sarebbe ampiamente trascorso (l’esercizio del potere di autotutela è intervento infatti a distanza di un periodo variabile da sei a tre anni dalla presentazione dei titoli tardivamente contestati). La documentazione depositata dimostrerebbe poi che la D.I.A. aveva ad oggetto proprio il mutamento di destinazione d’uso dei locali.
L’atto non avrebbe compiutamente esplicitato le ragioni di pubblico interesse specifico, concreto ed attuale non coincidente con la mera esigenza in astratto del ripristino della legalità asseritamente violata, nonché il doveroso bilanciamento dell’interesse pubblico alla rimozione del provvedimento con l’interesse del privato e, in particolare, con il legittimo affidamento maturato nei riguardi degli effetti prodotti dalle varie denunce e segnalazioni di inizio attività.
Sarebbe poi comunque erronea la ricostruzione secondo cui, a mente del P.d.F. tuttora vigente, nella zona omogenea “I2” non sarebbe ammessa l’attività commerciale in senso stretto, con conseguente insussistenza dei presupposti per dar luogo all’attività di cui alla denuncia del 30.9.2009. All’atto della presentazione della D.I.A., in zona D del P.d.F. di A****O era infatti ammesso il cambio di destinazione d’uso a fini commerciali.
Il TAR avrebbe anche omesso di considerare l’art. 64 del d.lgs. n. 59/2010 precluderebbe ai Comuni di porre sbarramenti all’apertura di esercizi commerciali meramente fondati sulla destinazione urbanistica dell’area, salva l’esistenza di specifiche ragioni di pubblico interesse primario connesse, ad esempio, alla tutela della salute, della sicurezza e dell’ambiente, manifestamente non ricorrenti nella specie.
Con riguardo al capo di sentenza con cui è stato ritenuto legittimo l’intervento in autotutela sulla D.I.A. del 30.4.2012 e del connesso certificato di agibilità dei locali relativamente alla sala giochi e scommesse, il regolamento comunale – nella parte in cui statuisce che, “di norma”, nei locali seminterrati non è prevista la localizzazione di attività aperte al pubblico, come appunto la sala giochi − conterrebbe una salvezza circa la possibilità di accordare un’espressa deroga da parte dell’Autorità sanitaria competente preposta proprio alla verifica dei requisiti di aerazione ed illuminazione che consentono di approvare soluzioni progettuali tali da rimuovere ogni ostacolo all’esercizio dell’attività. Nella specie, il Dipartimento di Prevenzione dell’ASL (omissis) avrebbe espresso parere favorevole di compatibilità progettuale in deroga all’art. 65, comma 1, del D.L. n. 81/2008 (prot. n. 11563/B del 18.10.2012).
4.‒ Il Comune di A****O si è costituito in giudizio chiedendo che l’avversario appello venga dichiarato infondato.
5.‒ Con ordinanza n. 4604 del 2016, la Sezione, considerata la gravità del danno derivante dall’esecuzione della sentenza impugnata, ha accolto l’istanza cautelare e, per l’effetto, sospeso l’esecutività della sentenza impugnata.
6.‒ All’udienza del 30 marzo 2017, la causa è stata discussa ed è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1.‒ È fondato il motivo di impugnazione con il quale gli appellanti rimarcano l’illegittimità dei contestati atti di ritiro, in quanto adottati in violazione dei canoni normativi relativi al termine entro cui può essere validamente rimosso (d’ufficio) un provvedimento illegittimo e alla sussistenza di un interesse pubblico (attuale e specifico) che ne giustifichi l’eliminazione.
1.1.‒ Come è noto, recenti riforme hanno inciso sui presupposti per l’esercizio del potere di autotutela decisoria. L’art. 25, comma 1, lettera b-quater, del decreto-legge n. 133 del 2014, convertito nella legge n. 164/2014, ha modificato l’art. 21-nonies, escludendo la possibilità di procedere ad annullamento d’ufficio nei casi di provvedimenti già non annullabili dal giudice amministrativo nella ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 21-octies, comma 2. La successiva legge n. 124 del 2015 − nel segno di una tendenziale riduzione dei poteri discrezionali dell’amministrazione, al fine di garantire maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici dei soggetti la cui azione risulta condizionata dalle decisioni amministrative – ha introdotto due importanti modifiche: a) la fissazione del termine massimo di diciotto mesi per la valida adozione dell’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori e attributivi di vantaggi economici; b) la previsione, con il comma aggiunto 2-bis, della possibilità di annullare, anche dopo quel termine, i provvedimenti ottenuti sulla base di dichiarazioni false, ma solo quando la falsità è stata accertata in sede penale con sentenza passata in giudicato. Sul piano sistematico si assiste ad un vistoso allontanamento dalla tradizionale ricostruzione dell’istituto fondata sull’immanenza ed inesauribilità del potere amministrativo e sull’idea che si tratti di una prerogativa a tutela del solo interesse pubblico ancorato a presupposti necessariamente elastici.
1.2.− Il rafforzamento della tutela dell’affidamento si è manifestata anche nella direzione della ridefinizione dei rapporti fra autotutela e SCIA, con la più rigida perimetrazione dei poteri inibitori e conformativi attribuiti all’amministrazione destinataria della segnalazione. In particolare, l’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 6, comma 1, lettera a), della l. 7 agosto 2015, n. 124, stabilisce ora che, decorso il termine ordinario (di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, dello stesso articolo 19), l’amministrazione competente può adottare i medesimi provvedimenti di inibizione e di conformazione in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies. L’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 222 del 2016, ha inoltre chiarito che i diciotto mesi iniziano a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’esercizio dei poteri ordinari di verifica da parte dell’Amministrazione competente.
1.3.‒ Quanto alla pregnanza dell’onere motivazionale, questa Sezione del Consiglio di Stato ha più volte precisato che la rimozione d’ufficio di un atto favorevole esige una articolata esplicitazione delle ragioni, di interesse generale che impongono l’eliminazione dell’atto invalido, attraverso la chiara esemplificazione degli effetti concreti che si assumono contrastanti con i valori tutelati dall’ordine legale infranto, per come atteggiantesi nello specifico contesto empirico e non per come astrattamente considerati dalla disciplina normativa (cfr. la sentenza 27 gennaio 2017 n. 341, anche di seguito richiamata).
2.− Venendo ora al caso di specie, rileva il Collegio che gli impugnati atti di autotutela del Comune di A****O sono stati adottati nel vigore della legge n. 124 del 2015, entrata in vigore il 28 agosto 2015, mentre gli atti rimossi sono tutti antecedenti rispetto a tale data.
Si pone dunque un problema preliminare di diritto transitorio. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla legge 7 agosto 2015, n. 124, è applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente (ex plurimis: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 17.3.2016, n. 351; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 22.9.2016, n. 4373; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 4.1.2017, n. 65; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-bis, 21.2.2017, n. 2670; T.A.R. Sardegna, Sez. I, 7.2.2017, n. 92). Secondo un indirizzo di segno opposto – fatto proprio dai giudici di prime cure – ai fini dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art. 11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado, con conseguente insensibilità del procedimento amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo sopravvenute.
Ritiene invece il Collegio di dare continuità all’impostazione ermeneutica – inaugurata dal Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 19 gennaio 2017, n. 250 − secondo cui il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa. Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione. È fatta salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990. Quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine, deve aggiungersi che − per quanto i diciotto mesi non possano considerarsi (per i motivi anzidetti) ancora decorsi − è anche vero che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (Consiglio di Stato, sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625). La decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione da parte dell’amministrazione, deve essere, quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche.
2.1.− Nella fattispecie esaminata, il termine complessivamente decorso rispetto alla data del provvedimento annullato deve ritenersi irragionevole. L’ordinanza n. 16 del 26 agosto 2015 concerne la denuncia di inizio attività del 30.9.2009 e le note del 23.6.2010 e del 28.6.2010. Il provvedimento del 7 ottobre 2015, riguarda la DIA n. 9584 del 30 aprile 2012, relativa al mutamento di destinazione d’uso del piano seminterrato dell’immobile sito in via Atellana, angolo via Medi, nonché il certificato di agibilità relativo n. 21 del 23 ottobre 2012. L’atto n. 2378 del 3.11.2015 ha ritirato i titoli abilitativi in materia commerciale del 2011.
In definitiva, l’esercizio del potere di autotutela è intervento a distanza di un periodo compreso tra i sei e i tre anni dalla presentazione dei titoli asseritamente illegittimi. La tardività dell’intervento correttivo imponeva, a fronte della consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della loro efficacia, imponeva una motivazione particolarmente convincente circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo. Per contro, gli atti controversi non contengono convincenti argomentazioni circa gli estremi e i contenuti dell’anzidetta doverosa valutazione, evocandosi in modo tautologico gli interessi sottesi alla disposizione normativa la cui violazione avrebbe integrato l’illegittimità dell’atto oggetto del procedimento di autotutela. Questa Sezione − cfr. la sentenza 27 gennaio 2017 n. 341 – ha recentemente puntualizzato che: «l’identificazione dell’interesse pubblico all’eliminazione dell’atto viziato nelle medesime esigenze di tutela implicate dalla norma violata con lo stesso, si risolve in ogni caso nella (inammissibile) coincidenza del presupposto vincolante consistente nell’invalidità del provvedimento originario con l’ulteriore e diversa condizione (secondo l’assetto regolativo di riferimento) della sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione d’ufficio. Sennonché, tale esegesi dev’essere rifiutata nella misura in cui si risolve nella pratica disapplicazione della parte del precetto che esige la ricorrenza dell’ulteriore (rispetto all’illegittimità dell’atto originario) condizione della ricorrenza dell’interesse pubblico attuale alla eliminazione del provvedimento viziato e, quindi, all’elisione dei suoi effetti giuridici. Perché la norma abbia un senso è necessario, in altri termini, non solo che l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all’azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all’ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l’apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l’illegittimità dell’atto da annullare d’ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore». È utile rimarcare che gli anzidetti canoni di buona azione amministrativa non possono ritenersi certo derogati in ragione del fatto che con D.P.R. del 29 aprile 2015 (pubblicato sulla G.U. n. 115 del 20 maggio 2015) è stato disposto lo scioglimento degli organi elettivi del Comune di A****O ai sensi dell’art. 143 TUEL.
2.2.− Sotto altro profilo, erra il TAR quando afferma che l’esercizio del potere inibitorio “ex post” sarebbe stato giustificato dalla falsa rappresentazione e dichiarazione dello stato dei luoghi (in ciò avallando l’atto dell’amministrazione comunale in cui si legge che la DIA non potrebbe produrre «effetto giuridico» perché « rappresentava lo stato dei luoghi come commercio»). In senso contrario, deve osservarsi che le opere realizzate a seguito della DIA 30.9.2009 – segnatamente: realizzazione di tramezzature, sostituzione della pavimentazione interna, dei rivestimenti, degli infissi interni ed esterni, l’installazione di impianti tecnologici, copertura con tenda retrattile ed altri interventi, di cui gli atti impugnati non contestano la difformità rispetto alla dichiarazione − erano espressamente finalizzate all’uso commerciale dei locali. Che l’intendimento dichiarato dagli istanti fosse la destinazione ad attività commerciale è attestato, del resto, dalla stessa nota del Comune di A****O n. 16610 del 28 Giugno 2010. Su queste basi, la questione giuridica se le opere dichiarate fossero compatibili o meno con la disciplina urbanistica dell’area atteneva alla legittimità del “titolo” (espressione qui evocata in senso lato, trattandosi di un modulo procedimentale dichiarativo) che la pubblica amministrazione avrebbe dovuto doverosamente verificare per tempo. Di certo non veniva in considerazione una falsa rappresentazione della realtà materiale (che, peraltro, l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 richiede sia accertata con sentenza passata in giudicato).
3.− Possono assorbirsi tutti gli altri motivi, in quanto i profili di illegittimità accertati garantiscono alle società istanti il conseguimento della massima utilità sostanziale.
4.– L’appello è, dunque, fondato.
4.1.– Le spese di lite seguono la soccombenza come di norma.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 7210 del 2016, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza in primo grado, annulla i provvedimenti impugnati.
Condanna il Comune appellato al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio, che si liquida in complessivi € 6.000,00, oltre IVA e CPA come per legge, in favore degli appellanti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2017 con l’intervento dei magistrati:
Sergio Santoro, Presidente
Bernhard Lageder, Consigliere
Marco Buricelli, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Dario Simeoli, Consigliere, Estensore