Convertire ad uso abitativo parti comuni esistenti qualifica aumento di carico urbanistico
In passato il mutamento d’uso senza opere era edilizia libera anche per destinazione agricola
Si fa enorme fatica a spiegare al proprietario di un immobile rurale che deve pagare sostanziosi oneri di urbanizzazione per trasformarne l’utilizzo verso destinazioni d’uso diverse, magari costruito cento anni fa in territorio agricolo.
Al momento la normativa non aiuta neppure argomentando che la sua costruzione sia avvenuta in epoca anteriore alla L. 10/1977, cioè la prima legge nazionale che ha istituito l’obbligo di versare oneri di urbanizzazione per nuove costruzioni e ristrutturazioni, ed esonerare dal pagamento soltanto quelli per la conduzione dell’attività agricola.
Ciò nonostante, in molte regioni e comuni il mutamento di destinazione d’uso senza opere dalla categoria agricola verso altre continua a configurare mutamento d’uso rilevante, comportante probabile incremento di carico urbanistico, sottoponendoli al pagamento dei cosiddetti oneri verdi, cioè oneri di urbanizzazione anche considerevoli (in Toscana parificati assurdamente a nuova costruzione).
Ammettiamo anche casi in cui la deruralizzazione possa essere avvenuta di fatto anni fa, senza la contemporanea esecuzione della minima opera, per il quale il proprietario all’epoca non ha chiesto alcun titolo abilitativo o permesso edilizio comunque denominato.
Una casistica positiva potrebbe riguardare il cambio d’uso meramente funzionale operato di fatto anni fa, cioè anteriormente alla L. 47/85 e oggettivamente dimostrabile: ricordiamoci che l’onere della prova deve sempre essere rispettato soprattutto da parte del cittadino interessato a sostenere l’interesse.
E quando parliamo di destinazione d’uso rurale, e relativa perdita di ruralità, occorre ricordarsi che la sussistenza ai fini urbanistici/funzionali e anche catastali deve avvenire in presenza di entrambi i requisiti:
- oggettivi: caratteristiche dell’immobile e relativo accatastamento.
- soggettivi: qualifica dell’imprenditore agricolo a titolo principale per la conduzione del fondo.
Alla luce di ciò, qualcuno sostiene che la deruralizzazione si configuri giuridicamente anche con la perdita del solo requisito soggettivo, come ad esempio la chiusura dell’attività agricola aziendale o il decesso dell’unico soggetto che svolge tale attività, senza passaggio ad altri simili. E’ una tesi da ritenere condivisibile.
Mutamento destinazione d’uso senza opere libero ante L. 47/85
Per prima cosa va ricordata la consolidata giurisprudenza che considera legittimo il cambio di destinazione d’uso, avvenuto senza opere edili prima dell’entrata in vigore della L. 47/1985, e sempre che rientrasse in una delle destinazioni consentite all’epoca in zona dallo strumento urbanistico e regolamento edilizio comunale. Ripercorriamo rapidamente le tappe normative rilevanti e la giurisprudenza ormai pacifica in materia di cambi d’uso senza opere del passato, confermata da ultimo anche da Consiglio di Stato n. 3075/2024:
La L. 47/1985 sul condono edilizio ha introdotto una specifica disciplina (articoli 8, 25 e 26) del mutamento di destinazione d’uso, con o senza opere, demandando, in particolare, alle Regioni di stabilire quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tra cui il mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 1444/1968 (art.8).
Ma fino ad allora la giurisprudenza aveva ritenuto che “Il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile non accompagnato da lavori di ristrutturazione non è soggetto a concessione o autorizzazione comunale; ……in quanto spetta al proprietario e non all’autorità urbanistica scegliere, tra i diversi usi cui un immobile è astrattamente idoneo, quale uso farne in concreto (beninteso, senza esecuzione di opere edilizie)… lo strumento di pianificazione urbanistica, in base alla normativa vigente, non può regolare fatti e comportamenti che non implicano modificazioni di destinazione strutturale degli immobili o del territorio (Consiglio di Stato, VI, 28 luglio 1982, n. 525; Consiglio di Stato sez. IV, 16/05/1986, n.341)”, salvo il controllo pubblico eventualmente stabilito da altre norme, come regolamenti d’igiene, di commercio, di pubblica sicurezza.
Nello stesso senso Consiglio di Stato sez. IV, 19/06/1985, n.232 (“deve riconoscersi la piena liceità dei mutamenti di destinazione d’uso di immobili non accompagnati dalla esecuzione di opere edilizie, senza che tale mutamento sia, peraltro, condizionato all’acquisizione di un previo titolo abilitativo”) e Consiglio di Stato sez. IV, 23/11/1985, n.551 (“In base alla normativa vigente, il mutamento di destinazione d’uso degli immobili, che non sia collegato a lavori di modificazione, o a modificazioni del progetto in corso d’opera, non ha, di per sè, rilievo ai fini urbanistici, essendo constatabile – alla stregua della vigente legislazione, siccome risulta anche dall’art. 26 l. 28 febbraio 1985 n. 47 – che nulla permette di ritenere che il legislatore abbia inteso autorizzare le autorità urbanistiche a disciplinare, in generale, l’uso degli immobili piuttosto che la loro trasformazione”).
A conferma di ciò, l’art. 1 della legge n. 10/1977, nel subordinare a concessione “ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale”, evidentemente escludeva dal proprio perimetro applicativo i cambi di destinazione d’uso senza interventi edilizi.
Il regime dei cambi d’uso senza opere viene modificato con l’articolo 25 c.1 L. 47/85, per il quale a pochi anni di distanza interviene il chiarimento con sentenza di Corte Costituzionale n. 73/1991, interpretandolo nel senso che:
- il mutamento di destinazione d’uso funzionale poteva essere assoggettato soltanto ad autorizzazione;
- l’autorizzazione era prevista solo per ambiti territoriali delimitati;
- per l’assoggettamento ad autorizzazione necessitava il duplice intervento della Regione e del Comune;
- l’assoggettamento al regime autorizzatorio non poteva limitarsi al provvedimento regionale perché compito indefettibile del Comune era quello di «un preventivo apprezzamento di insieme del territorio diretto a verificare se dalla mutata utilizzazione possano effettivamente derivare situazioni di incompatibilità con il tessuto urbanistico».
In buona sostanza, quindi, la Regione era competente a normare i criteri generali e astratti degli interventi, nel mentre al Comune era invece riservato il potere di applicare in concreto tali criteri nel proprio territorio.
Il cambio d’uso funzionale va dimostrato come Stato Legittimo
Anche la dimostrazione della legittima destinazione d’uso presente sull’immobile è stata ufficialmente sottoposta alle stesse regole e verifiche di conformità vigenti per immobili, cioè lo Stato Legittimo: è proprio il comma 2 articolo 23-ter D.P.R. 380/01 che richiama l’articolo 9-bis c.1-bis del T.U.E.
Ciò significa che l’avvenuta modifica funzionale dovrà risultare comprovata dai pratiche edilizie o in alternativa, in epoca e zona non allora soggetta ad obbligo di titolo, da documenti aventi valenza probanti, come indicati nella definizione di Stato Legittimo: Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio, lo stato legittimo è quello desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto, o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti d’archivio, o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali.
Questa casistica cade a fagiolo per dimostrare che la formulazione di Stato Legittimo per epoca in cui non era sottoposta a titolo abilitativo, trova applicazione in via residuale o surrogatoria anche per interventi rientranti in edilizia libera.
La fattispecie trattata dall’anzidetta sentenza di Consiglio di Stato n. 3075/2024 riguardava il mutamento di destinazione d’uso avvenuto senza opere dalla categoria rurale a quella commerciale, comprovata dalla licenza di commercio al minuto e per l’esercizio del commercio, intervenute rispettivamente nel 1960 e 1981.
Anche se la vecchia licenza di attività commerciale, rilasciata allora dal Comune, non configura titolo abilitativo edilizio “proprio”, assume natura di documento probante come appositamente richiamato dalla definizione di Stato Legittimo per trasformazioni effettuate in epoca antecedente all’obbligo di titolo abilitativo (ad esempio il 1° settembre 1967).
La possibilità di dimostrare la legittimità di un opera o consistenza edilizia può avvenire anche con questi documenti amministrativi rilasciati dalla P.A. diversi dai tipici provvedimenti edilizi. In tal senso si richiama anche Consiglio di Stato n. 10670/2022: Inoltre, contrariamente a quanto opinato dal T.a.r., la fonte primaria non riconosce rilevanza probatoria specificatamente ai “titoli afferenti all’ambito urbanistico-edilizio” al fine di dimostrare la destinazione d’uso dell’immobile bensì fa riferimento genericamente a “documenti probanti” e, in via esemplificativa, agli atti ivi individuati per comprovare la destinazione d’uso in essere. Tra questi atti devono essere sicuramente annoverati i certificati amministrativi che sono documenti pubblici, nella specie attestanti il legittimo esercizio dell’attività commerciale presso l’immobile in questione, valendo tali documenti pubblici, di provenienza certa e non contestata, a dimostrare, quali indizi gravi, precisi e concordanti la destinazione commerciale dell’immobile.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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