La Giunta comunale approva i piani attuativi qualora compatibili con lo strumento urbanistico generale vigente, il Consiglio Comunale quando comporta variante ad esso.
Le categorie di intervento nazionali non possono essere sostituite o escluse, ma solo integrate.
Questo principio vale nelle regioni a statuto ordinario, quelle a statuto speciale meritano trattazione separata
Il Testo Unico per l’edilizia DPR 380/01 lo vorrei definire un “figlioccio” fuori dal matrimonio di quella che fu la riforma “federalista” del 2001, che portò a modificare soprattutto il Titolo V e articoli 117 e segg. della Costituzione.
Con quella riforma fu introdotto il regime di legislazione concorrente sulla materia di Governo del Territorio (et urbanistica, quindi) per le regioni a statuto ordinario, mentre per quelle a statuto speciale potevano godere di maggiori poteri comunque circoscritti dalla Costituzione e nei limiti dei poteri statutari delle stesse.
Purtroppo il confine delimitativo della legislazione concorrente tra Regione a statuto ordinario e Stato si è rivelato poco chiaro e labile come un elastico.
In particolare cambiò molto il rapporto gerarchico nelle questioni procedurali e sulle definizioni delle categorie di intervento edilizio, quelle definite con l’art. 3 del TUE.
L’articolo 3 al comma 1 elenca e descrive le categorie di intervento, su cui sorvoliamo; interessante invece è il comma 2 dello stesso, che statuisce quanto segue:
2. Le definizioni di cui al comma 1 prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi;
Le regioni a statuto ordinario, in un’ottica di voler semplificare le procedure e attività edilizie, hanno introdotto, integrato e diversificato le proprie categorie di intervento, e di converso le relative procedure.
A ruota, i Comuni hanno a loro volta doverosamente recepito le modifiche provenienti da norme nazionali e regionali nei rispettivi strumenti urbanistici generali (PRG,PGT,RU,ecc) e nei regolamenti edilizi.
Tuttavia, in Italia abbiamo:
- 1 legislatore nazionale;
- 21 legislatori regionali (19 regioni + 2 province autonome);
- oltre 8.000 comuni, salvo enti locali come unioni dei comuni, città metropolitane, province, ecc.
Praticamente qualunque minima mossa del Legislatore nazionale si riversa addosso a oltre ottomila Comuni.
Gli enti locali “di prossimità” come i Comuni sono quindi costretti a tenere d’occhio:
- il Testo Unico nazionale DPR 380/01;
- le svariate modifiche legislative regionali;
I comuni, si rammenta, per pianificare e controllare lo sviluppo del territorio devono redigere il proprio strumento urbanistico (PRG) e Regolamento Edilizio in due filoni procedurali disgiunti, avendo accortezza di mantenerli coerenti e aggiornati tra loro.
E qui arriviamo al possibile (frequente) corto circuito.
Il legislatore nazionale ha modificato spesso il Testo Unico per l’Edilizia con un pendolarismo normativo divenuto asfissiante.
La scansione temporale delle norme succedutesi nel tempo, ed il rapporto fra le norme nazionali e quelle locali in materia edilizia ed urbanistica hanno inciso profondamente sull’attività edilizia e sul regime amministrativo per le pratiche edilizie.
La normativa regionale deve essere applicata alla luce delle vigenti norme nazionali che su di essa hanno il potere di incidere direttamente, e rispetto alle quali gli enti locali preposti hanno il dovere di conformarsi.
Spesso nelle modifiche sostanziali viene indicato anche un termine entro il quale le regioni (ordinarie, ndr) si devono conformare e recepirne le novità, decorso il quale le nuove modifiche prevalgono su quelle eventualmente in contrasto nei testi regionali e sopratutto nei PRG e Regolamenti edilizi. Peggio ancora se non viene inserito un termine, per il quale le modifiche diventano operativo non appena pubblicate in Gazzetta Ufficiale.
Prendiamo ad esempio le regioni “ritardatarie” verso il Decreto ‘Scia 2’ n. 222/2016 che lo hanno recepito oltre il termine del 30 giugno 2017 (Toscana, ndr) nelle quali emerge una sorta di incertezza applicativa del giusto regime procedurale da applicare.
Il rapporto fra le legislazione nazionale, regionale e le prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici comunali, con riferimento specificamente alle Regioni a statuto ordinario, è stato oggetto di dibattito in giurisprudenza, dibattito che ha reso necessario l’intervento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato reso con sentenza n. 2 del 7/04/2008.
Con essa si è infatti ribadito che, le disposizioni contenute nel T.U. dell’Edilizia D.P.R. 380/2001, avendo carattere di norme di principio, prevalgono sulla normativa delle Regioni a statuto ordinario in contrasto con esse, le quali risultano addirittura implicitamente abrogate o inefficaci.
L’Adunanza Plenaria nella citata sentenza precisa che:
«nel momento in cui il legislatore nazionale è intervenuto nella materia, assegnando alle norme contenute nel t.u. dell’edilizia volte al riordino della stessa il carattere di norme di principio (e tale, per le ragioni anzidette, appare la norma di cui si discute), devono ritenersi, per ciò stesso, abrogate le norme delle regioni a statuto ordinario con esse confliggenti e, così – per ciò che attiene alla presente fattispecie – la disciplina di fonte regionale di cui si è detto per contrasto con i principi contenuti nel ripetuto art. 12, comma 3, del T.U.E. n. 380/2001; ciò in quanto, fino all’adeguamento delle Regioni a statuto ordinario alle norme di principio recate nel testo unico, le norme aventi tale portata in questo contenute sono destinate a prevalere sulle prime. Non si tratta, infatti, di restituzione allo Stato di competenze in materia urbanistico/edilizia trasferite alle regioni a statuto ordinario, ma semplicemente di esercizio, da parte dello Stato, in conformità con quanto previsto dall’art. 117 Cost. e dalla citata legge n. 62 del 1953, della potestà, riservata, appunto, alla stessa legislazione statuale, di determinare i principi fondamentali nelle materie di legislazione ripartita».
Quindi l’individuazione dei principi regolatori della materia edilizia è desumibile anzitutto proprio dal T.U. edilizia, il quale stabilisce espressamente che “il presente testo unico contiene i principi fondamentali e generali e le disposizioni per la disciplina dell’attività edilizia” (art. 1, co. 1 TUE, Cons. di Stato Ad.Pl. n. 2/2008).
Anche la Corte Costituzionale ha affrontato il tema della conformazione tra Stato ed Enti locali.
Nella sentenza n. 309 del 23/11/2011 la Corte Costituzionale riprende quanto già in precedenza affermato con la decisione n. 303 dell’1/10/2003, chiarendo e ribadendo che, « a fortiori sono principi fondamentali le disposizioni che definiscono le categorie di interventi in quanto “è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali».
In altri termini, la Corte costituzionale valorizza una delle caratteristiche essenziali del T.U. edilizia, il cui impianto assume come punto di riferimento principale, non tanto il regime dei titoli abilitativi in sé considerato, quanto le note definizioni degli interventi edilizi di cui al citato art. 3, a cui si ricollega la disciplina di molta parte dell’attività edilizia, in ordine all’onerosità degli interventi, alla misura dell’oblazione in caso di sanatoria e al regime sanzionatorio degli abusi.
L’evoluzione giurisprudenziale, nel solco dei principi posti dalla Corte Costituzionale, tende ad assegnare una valenza “trasversale” ad alcune materie di competenza statale (particolarmente evidente nella tutela dell’ambiente e dei beni culturali), spesso frammentando le materie di competenza regionale (residuale o concorrente) in sotto-materie, o “interessi”, riconducibili in vario modo agli ambiti di competenza legislativa statale.
In questi casi le competenze statali risultano qualificate come “compiti”, che lo Stato soddisfa mediante interventi legislativi nelle materie più diverse dettando standard uniformi, vincolanti per le Regioni.
Con la sentenza n. 309/2011 citata la Corte costituzionale applica questi principi anche alle norme prettamente edilizie, quali sono le definizioni degli interventi di cui all’art. 3 del T.U. edilizia. In altri termini, le norme interessate sono proprio le disposizioni definitorie su cui risulta costruito, per stessa ammissione delle Corte, l’intero corpus normativo dello Stato in ambito edilizio, il quale, sotto questo profilo, comprime, in forza appunto del principio della prevalenza di cui al comma 2 dell’art. 3, non soltanto le competenze legislative regionali, ma anche l’autonomia normativa dei Comuni.
In sintesi, la classificazione degli interventi edilizi costituisce disciplina di principio appartenente alla competenza statale e si impone sulla legislazione regionale e sulle previsioni degli strumenti urbanistici (TAR Toscana III n. 386/2017).
Può capitare che un Comune sia dotato di PRG e Reg. Edilizio con definizioni obsolete e incoerenti con l’attuale Testo Unico per mancato aggiornamento.
Comprensibile: i comuni con bilanci adeguati possono permettersi di aggiornare e avviare procedimenti, sia con organico interno o con affidamenti esterni.
Il problema è molto probabile nei comuni che ridotte risorse disponibili, i quali si trovano loro malgrado a fare i possibili aggiornamenti.
Accade quindi che nelle categorie di intervento citate indicate nei regolamenti edilizi comunali e strumenti urbanistici comunali, siano divergenti o contrastanti con le modifiche sopravvenute nel TUE, vuoi anche per non aver recepito le modifiche regionali.
Proviamo a spezzare una lancia a favore dei Comuni: questi enti locali hanno il fiato corto per tenere il passo di due atleti a doppia velocità, cioè lo Stato e la Regione di riferimento.
Caso esemplare: col ‘Decreto Sblocca-Italia’ convertito in L. 164/2014 fu modificata la definizione di manutenzione straordinaria (art. 3 c.1 del TUE), alla quale fu consentito anche il cosiddetto “frazionamento leggero” degli immobili. Tale definizione divenuta praticamente subito operativa, ha impiegato tempo prima di essere recepita negli strumenti urbanistici e regolamenti comunali.
Al comune spetta la potestà di pianificare il proprio territorio con appositi strumenti e procedure, nel rispetto delle norme e discipline sovraordinate e di settore.
Un comune può limitare o meno l’attività edilizia attraverso lo strumento urbanistico generale, quelli attuativi e Regolamento edilizio, nei quali rispettare e recepire in primis le categorie di intervento definite nell’art. 3 comma 1 del TUE, e quelle eventualmente derivanti dalla legislazione regionale.
Ancora, la giurisprudenza amministrativa è unanime sul punto, si veda anche Cons. di Stato IV n. 678 del 28/12/2011 che statuisce:
«Il comma 2 dell’articolo 3 del TU Edilizia prevede che in ordine alle definizioni di cui al comma 1 del medesimo articolo, esse prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi. La individuazione analitica delle varie tipologie di interventi, effettuata all’articolo 3 in una gerarchia ascendente, a seconda della incidenza sull’assetto del edilizio e territoriale, prevale quindi sulle eventuali diverse formulazioni definitorie contenute nei piani regolatori, nella normativa tecnica di attuazione e nei regolamenti edilizi: si tratta di una forma di abrogazione implicita, di cedevolezza, di prevalenza, di resistenza o disapplicazione delle disposizioni degli strumenti urbanistici locali (lo strumento o l’istituto al quale si ricorre può essere vario), che cedono di fronte alle definizioni dettate dalla fonte primaria (anche se trattasi di testo unico adottato con la forma del Dpr), le quali hanno un grado di durezza e una efficacia cogente tali da prevalere su ogni altra contraria definizione, acquistando anche la valenza di un criterio ermeneutico generale per la intera disciplina urbanistico-edilizia su base locale».
Sempre dello stesso tenore le sentenze di Consiglio di Stato IV n. 5227/2015, 5187/2014, 3387/2012, n. 5214/2007.
Al Comune resta quindi:
- preclusa la possibilità di modificare l’elencazione degli interventi edilizi compresi in ciascuna categoria, inserendo o eliminando tipologie di intervento, se confliggenti con norme sovraordinate;
- libera l’ammissibilità di specifiche tipologie d’intervento in particolari zone/immobili.
Ecco quindi che ai Comuni perviene l’ingrato compito di tenere d’occhio ben due discipline a diverse velocità e di aggiornare strumenti urbanistici e regolamenti con la massima celerità, onde crearsi un regime di poca chiarezza tra tutti gli operatori coinvolti.
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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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