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Introdotti negli Anni ’90 per una pianificazione territoriale negoziata e partecipata

Trattasi di strumenti di natura negoziale nati negli anni ’90 anche come risposta alla tradizionale rigidità dei piani regolatori, i quali si riferiscono a porzioni urbane significative la cui riqualificazione può ricomprendere perfino dotazioni territoriali e standard urbanistici.

(articolo tratto da un mio precedente esame universitario in materia di Programmi Complessi, discusso nel 2008).

I Contratti di Quartiere ebbero inizio con Legge 662/96 (art. 2 comma 63 lett.b) su iniziativa del Ministero dei lavori pubblici per favorire l’integrazione territoriale e sociale delle zone in condizioni di degrado urbanistico ambientale, e l’effettivo avvio delle prime sperimentazioni si ebbe a partire dal 1998.

Dopo questo primo filone “sperimentale” compiuto con discreti risultati positivi e denominato “Contratti di Quartiere I“, vi fu un secondo filone avviato con i Decreti Ministeriali 27.12.2001 (supplemento ordinario n. 142 alla G.U. del 12.07.2002, n. 162) e 30.12.2002 (G.U. 23.04.2003, n. 94), coi quali furono stanziate le risorse finanziarie e individuate le procedure per l’attuazione dei programmi innovativi in ambito urbano, filone che fu denominato “Contratti di quartiere II’‘. Dopò ciò, non risultano esservi stati ulteriori rifinanziamenti.

L’oggetto dei Contratti di Quartiere riguarda principalmente i quartieri periferici o comunque degradati.

Essi rientrano tra i programmi complessi che perseguono finalità di tipo “edilizio e urbanistico” (insieme ai programmi integrati di intervento, ai programmi di riqualificazione urbana, ecc.) e hanno natura di tipo negoziale, cioè aperta alle istanze e alla collaborazione dei privati; con tale contratti di quartiere viene affrontato il delicato tema del rapporto tra questi strumenti complessi e la natura pubblica del piano, e introducevano azioni e misure per favorire lo sviluppo sociale con l’incremento di offerta occupazionale, prevedevano approcci integrati e collaborazioni intersettoriali all’interno della PA, nonchè l’interazione tra l’amministrazione pubblica e il privato per incrementare l’efficacia e la dimensione delle risorse disponibili.[1]

Con questo strumento urbanistico “ibrido” e innovativo fu promossa anche la partecipazione sociale delle persone residenti chiamate a contribuire attivamente al ridisegno urbano delle zone da recuperare, contando sul senso di appartenenza delle zone in cui vivevano.

La “progettazione partecipata”, già sperimentata positivamente in numerosi altri Paesi europei, permetteva quindi di valorizzare il patrimonio di conoscenza degli abitanti, dei lavoratori e degli operatori (economici e sociali, associazioni…) del territorio, per la realizzazione di progetti di riqualificazione ottimizzati e condivisi.

Nella prima generazione dei contratti di quartiere furono rese disponibili un complesso di risorse dalle leggi finanziarie degli anni 1996 e 1997 (310 milioni di euro), e fu indirizzato verso un programma innovativo nel comparto del recupero urbano, con la richiesta di indicazioni significative sia per gli aspetti di sperimentazione edilizia, sia per la verifica di nuove modalità operative – procedurali e finanziarie. [2]

Potrei definirli programmi di rigenerazione urbana partecipata.

Nel bando emesso si specificava che i Contratti erano indirizzati a “quartieri segnati da diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano e da carenze di servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo”.

Principalmente ci si rivolgeva a quel patrimonio di edilizia residenziale realizzato tra gli anni ’60 e ’70, caratterizzato dalla presenza diffusa di edilizia abusiva – soprattutto nelle città del centro e del sud – e agli estesi quartieri di edilizia pubblica scarsamente dotati di servizi e agevoli relazioni con le altre aree urbane.

I “Contratti di Quartiere I” intendevano non solo promuovere interventi di recupero per il miglioramento della qualità abitativa, ma anche sistemazioni ambientali, arredi urbani, verde pubblico, alcuni servizi primari e opere infrastrutturali, arrivando a revisionare gli standard urbanistici e dotazioni territoriali.

I temi di sperimentazione che dovevano essere contenuti nelle proposte potevano essere raggruppati in quattro obiettivi generali di qualità:

  1. qualità morfologica, con obiettivi di qualità rapportati alla scala urbana e edilizia, il superamento della separazione tra funzioni residenziali e non, la qualificazione dello spazio e dell’arredo urbano;
  2. qualità fruitiva, per il miglioramento dei requisiti di accessibilità, visitabilità e adattabilità per soluzioni insediative rispondenti a nuovi modi di vita e di uso dell’alloggio e alle specifiche esigenze delle utenze sociali deboli;
  3. qualità sistemica, mirato a compatibilizzare l’innalzamento della qualità con il contenimento dei costi;
  4. qualità ecosistemica, privilegiando l’approccio bioclimatico volto a perseguire un miglioramento delle condizioni di benessere dell’abitare nelle città e in particolare all’interno degli edifici, nel rispetto degli ecosistemi preesistenti nell’ambiente e per assicurare un risparmio nell’uso delle risorse naturali disponibili.

Anche in questo caso emergeva con forza il tema dell’adeguamento delle dotazioni territoriali.

Le proposte elaborate dai Comuni avevano quasi sempre come obiettivo l’innalzamento della qualità insediativa e l’incremento della dotazione dei servizi e spesso il Contratto di quartiere veniva utilizzato per una riconsiderazione complessiva dell’ambito di intervento, in modo da attivare sistemi di relazione più efficaci con le altre parti della città.

Ciò ha fatto emergere la necessità di un approccio progettuale non più orientato su singole opere, ma su un complesso insieme di interventi.

Su tutti un dato appariva di grande interesse: per la totalità dei Comuni la partecipazione al concorso è stata utilizzata come occasione per ridurre le condizioni di disfunzione e di malessere urbano e per avviare un processo di riqualificazione con modalità di  approccio intersettoriale.

Costituiva, inoltre, elemento di forte novità il coinvolgimento di più soggetti per il perseguimento del principale obiettivo del programma sperimentale: riqualificare situazioni di degrado edilizio e urbanistico creando occasioni di crescita economica.

I contratti di quartiere hanno offerto la possibilità a nuovi soggetti di affacciarsi sulla scena della riorganizzazione urbana anche con le organizzazioni no-profit (il cosiddetto Terzo Settore) preposte a interpretare  le esigenze dell’utenza intervenendo nell’offerta di servizi alla persona e nella ricerca di forme di ottimizzazione nella gestione dei servizi a supporto del patrimonio di edilizia residenziale.

A partire dal gennaio 1998 oltre un centinaio tra piccoli, medi e grandi Comuni si sono attivati per partecipare a questo programma di recupero urbano, elaborando una, e in qualche caso più di una, proposta di intervento da presentare alle rispettive Regioni.

Complessivamente le domande pervenute alle Regioni furono 127: ogni regione doveva individuarne non più di cinque da trasmettere al Segretariato generale del Cer per la selezione su base nazionale[3].

La scelta, generalmente, è avvenuta senza difficoltà in quanto in molte Regioni le proposte presentate dai Comuni sono state in numero pari o inferiore a cinque. In altri casi, invece, la selezione è stata un’operazione impegnativa e controversa al punto che in una regione, la Sicilia, non è stata effettuata nessuna scelta, e al Ministero dei Lavori Pubblici sono stati inviati tutti progetti senza indicazione di preferenza.

Ultimata la fase di selezione regionale furono inviate al Cer 87 proposte di contratto di quartiere (13 progetti siciliani e 74 proposte selezionate dalle altre regioni).[4]

La commissione nominata per la valutazione dei progetti ha ulteriormente ridotto tale numero. Il bando di gara assegnava alla commissione il compito di esaminare e valutare le domande attribuendo specifici punteggi a una serie di indicatori. Per alcuni di questi è stato sufficiente attribuire dei punteggi oggettivi (carattere del Comune, ambito di intervento, presenza di finanziamenti apportati da soggetti privati e dalle regioni), per altri indicatori di carattere urbanistico, relativi alla qualità architettonica del progetto la commissione ha dovuto procedere a una valutazione di merito.

La graduatoria finale approvata riguardò 77 Comuni; essa divenne pienamente efficace dopo la registrazione da parte degli Organi di controllo e l’affissione all’Albo del Ministero dei Lavori Pubblici. Successivamente ebbe inizio la fase di stipula dei protocolli d’intesa in cui furono esplicitati gli impegni che le parti assumono per l’attuazione dei contratti di quartiere.

Nei protocolli d’intesa fu prevista la partecipazione anche della Regione, oltre che del Ministero dei Lavori Pubblici e del Comune, e dell’eventuale Iacp se coinvolto con il suo patrimonio edilizio. Lo schema di Convenzione per il finanziamento dell’intervento prevedeva la partecipazione del Segretariato Generale del Cer, del Comune e dello Iacp competente qualora si intervenisse sul suo patrimonio.

Una particolarità di queste convenzioni proveniva dal fatto che prevedevano l’erogazione a favore del contraente di un importo provvisorio in quanto solo successivamente all’espletamento delle gare d’appalto e al conseguimento dei ribassi d’asta (utilizzati per finanziare i Comuni di una seconda graduatoria) poteva essere determinato l’esatto ammontare da assegnare al Comune.

Di conseguenza, il trasferimento delle risorse al favore del Comune avveniva in relazione agli stati di avanzamento dei lavori, fatta eccezione per il 10 per cento dell’importo provvisorio del finanziamento, da erogarsi prima dell’espletamento delle gare di appalto, non appena verificata la conformità amministrativa del progetto esecutivo[5].

I contratti di quartiere della prima generazione furono vincolati da una rigida destinazione delle risorse, e questo ne ha sicuramente limitato uno sviluppo organico; essi però hanno evidenziato alcune problematiche.

La maggiore difficoltà emerse dal cercare di coinvolgere risorse private, non tanto in termini di risorse per realizzare costruzioni, bensì di coinvolgimento di interessi all’interno delle realtà degradate, capaci di attivare processi “virtuosi” per il recupero del degrado e di attivare iniziative occupazionali.

I Contratti di Quartiere erano finalizzati alla riqualificazione del “life style” territoriale.

Questo era un obiettivo dei contratti: in una periferia degradata, dove c’è solo residenza, bisognava realizzare attività commerciali, attività del tempo libero e attività che producono interesse economico e occupazione.

Nella sostanza si è trattato di programmi di recupero di edilizia residenziale pubblica e che quindi non potevano che coinvolgere attori pubblici come Comuni e Iacp, riducendo lo spazio per i soggetti privati e rendendolo assolutamente marginale.

Per risolvere questo problema occorrereva creare un quadro di convenienze tali per cui soggetti si rendessero disponibili ad attuare programmi di investimento; tali convenienze potevano essere rappresentate sì da una disponibilità di maggiori risorse, ma soprattutto dal superamento di una politica di spesa “una tantum” nella programmazione complessa.

Emerse inoltre un altro rilevante problema, ovvero la necessità di operare in modo intersettoriale/multidisciplinare: questo richiese nuove competenze e nuove forme di organizzazione dell’amministrazione: da parte delle amministrazioni comunali infatti emerse la necessità di organizzare i propri uffici in modo diverso, cercando di fare dialogare tra loro i servizi e settori: la gestione di operazioni complesse aveva evidenziato la necessità di una nuova organizzazione della macchina amministrativa.

La genericità del bando nazionale fece emergere la difficoltà di valutazione comparativa tra scale e contesti diversi: difficilmente i problemi di una città media sono gli stessi di una grande città, né tanto meno di una metropoli; raramente le necessità della popolazione del Sud possono collimare con quelle del Nord o del Centro Italia, per una differente dotazione di base, sia di cultura, sia di caratteristiche territoriali.

Infatti la graduatoria dei Contratti di Quartiere I comprendeva principalmente piccoli Comuni, che grazie alla loro maggiore flessibilità riuscirono in modo più snello e meno problematico ad adattarsi al bando nazionale.

Nella seconda generazione dei contratti di quartiere, con la creazione di bandi regionali che fecero riferimento al bando nazionale come criterio di riferimento fondamentale, le Regioni hanno potuto adottare (e adattare) questo stesso bando alle proprie caratteristiche territoriali e problemi specifici.

Nell’ottica di un rinnovo del welfare capace di coniugare politiche abitative e disagio urbano, la Legge nazionale 21/2001 e il successivo Decreto ministeriale 27/12/2001 (modificato dal decreto ministeriale del 31/12/2002), hanno finanziato per la seconda volta i contratti di quartiere.[6]

Nel 2001 furono riesumati i Contratti di Quartiere.

Con questa seconda generazioni gli obbiettivi furono più focalizzati non soltanto dal punto di vista dei finanziamenti, assicurando risorse con maggior continuità verso Comuni, capoluoghi delle aree metropolitane, ma anche individuando ambiti di intervento più articolati per investimenti privati tali da ridurre le condizioni di separatezza tra questi insediamenti e il resto della città.

Venne infatti proposto un programma volto alla riqualificazione delle aree periferiche svincolato dai limiti nella destinazione che avevano le risorse precedentemente puntato alla sola componente residenziale.

Il nuovo programma fu finanziato per il 65 per cento con fondi statali, mentre il rimanente 35 per cento lo fu con fondi regionali (le risorse messe a disposizione ammontano a circa 1,3 miliardi di euro); esso fu finalizzato a incrementare, con la partecipazione di investimenti privati, la dotazione infrastrutturale dei quartieri degradati dei Comuni e delle città a più forte disagio abitativo e occupazionale. Furono previste, al contempo, misure e interventi atti a incrementare l’occupazione, per favorire l’integrazione sociale e l’adeguamento dell’offerta abitativa.[7]

Rispetto alla prima edizione dei contratti di quartiere, il secondo filone venne gestito dalle singole regioni che, attraverso propri bandi, capaci di interpretare meglio le esigenze locali, invitarono le amministrazioni comunali a proporre progetti e a competere per la destinazione dei fondi.

I contratti di quartiere II evidenziarono quindi un raggiungimento di un nuovo punto di equilibrio nell’evolutivo rapporto tra Stato e Regioni (eravamo in pieno periodo di “Devolution” e Riforma del Titolo V), e il bando per il finanziamento rappresentò un carattere distintivo nella collaborazione che si poteva concretizzare in questi cinque punti principali:

  1. cofinanziamento dell’iniziativa (65 per cento dello Stato, 35 per cento della Regione);
  2. condivisione del bando di gara e la sua regionalizzazione (i bandi sono regionali con richiamo ai contenuti del bando tipo statale);
  3. selezione dei contratti di quartiere proposti dai Comuni da parte di una Commissione mista;
  4. sottoscrizione di un accordo di programma quadro per la gestione dei contratti di quartiere (come per altri programmi innovativi di promozione statale);
  5. costituzione di un Comitato paritetico di attuazione, anch’esso di composizione mista.

Nel primo semestre 2004 furono inoltrate, al Ministero, dalle regioni che hanno aderirono al programma, le proposte presentate dai Comuni.

Tali proposte furono valutate, ai fini dell’ammissibilità al finanziamento, dalla prevista commissione mista Stato-regioni che provvide ad approvare la graduatoria di ogni singola regione.[8]

Sull’attuazione e i risultati delle reciproche esperienze, si rinvia ad apposita trattazione.

[1] M. Casavecchia, “Diritto per Architetti” Parte Quarta Capp. 2-6 UTET, Torino, 1997

[2] Ibidem

[3] M. Casavecchia, “Diritto per Architetti” Parte Quarta Capp. 2-6 UTET, Torino, 1997

[4] ibidem

[5] M. Casavecchia, “Diritto per Architetti” Parte Quarta Capp. 2-6 UTET, Torino, 1997

[6] Ing. Luciano Tortoioli, pagg. 2-3-4 “Contratti di Quartiere II” pubblicate sul sito

[7] Ibidem

[8] vedi nota n. 6

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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