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La giurisprudenza ha stabilito che interventi successivi alla domanda giustificano il diniego del condono

Partiamo dal presupposto che la domanda di condono è appunto una domanda, a cui dovrà seguire una risposta.

Premesso che in Italia ci sono stati ben tre provvedimenti straordinari di condono edilizio, il discorso che segue vale per tutti.

E’ successo in molti casi che siano trascorsi perfino decenni dalla presentazione della prima domanda di condono edilizio, cioè negli anni 1985 e 1986, lasciata poi in giacenza.

Dossier Condono Edilizio: consultalo qui.

Sul fatto di queste decennali giacenze è già stato scritto di tutti e di più, sulle colpe e responsabilità che, a mio parere grava prevalentemente sui proprietari di immobili e sui propri professionisti tecnici che li hanno assistiti in tale procedura, nonchè sugli ulteriori interventi edilizi effettuati con queste pendenze.

Facendo riferimento al primo condono edilizio emanato con L. 47/85, bisogna evidenziare che la normativa non entra in merito con divieti di interventi successivi in caso di domande pendenti (e latenti).

E ciò vale a prescindere dallo stato di avanzamento dell’istruttoria compiuta dalla Pubblica Amministrazione: ci si può imbattersi ancora oggi in domande di condono completamente vuote fino a situazioni in cui manchi davvero una sola marca da bollo (esperienza personale).

Nelle richieste di condono edilizio per opere da completare è previsto uno specifico regime.

La normativa tuttora vigente è l’art. 35 L. 47/85, la quale disciplina l’unica casistica di opere posteriori alla domanda, e riguarda soltanto quelle il completamento:

«Decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda e, comunque dopo il versamento della seconda rata dell’oblazione, il presentatore dell’istanza di concessione o autorizzazione in sanatoria può completare sotto la propria responsabilità le opere di cui all’articolo 31 non comprese tra quelle indicate dall’articolo 33. A tal fine l’interessato notifica al comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, ed inizia i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione».

Tuttavia non possono essere portate a compimento le opere non suscettibili di sanatoria elencate dall’art. 33 DPR 380/01 della stessa norma.

La sentenza n. 665/2018 del Consiglio di Stato ribadisce un principio con cui «la pendenza dell’istanza di condono non preclude in assoluto la possibilità di intervenire sugli immobili rispetto ai quali pende l’istanza stessa, ma impone, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l’immobile abusivo cui ineriscono, che ciò debba avvenire nei limiti e nel rispetto delle procedure di legge.

La disposizione è riferita alle opere di completamento, nulla dispone in caso di interventi nuovi e diversi rispetto a quelli oggetto di sanatoria (in tal senso anche TAR Campania VII n. 3881/2018).

Difficile pure inquadrare i limiti di interventi posteriori, è consigliato terminare il condono prima di tutto.

Quando l’immobile abusivo non è meramente integrato, ma è radicalmente sostituito da un altro edificio, l’istanza di condono già proposta va dichiarata improcedibile stante la radicale trasformazione dell’oggetto originario. Conseguentemente, l’Amministrazione deve emanare il provvedimento di demolizione del nuovo immobile, costruito abusivamente in luogo di quello già realizzato sine titulo.

Ove invece non sia precluso di valutare l’autonoma abusività delle modificazioni sopravvenute, l’autorità pubblica dovrà limitarsi a ingiungere il ripristino delle opere ritenute non sanabili, senza che ciò comporti l’improcedibilità della pendente domanda di condono (Consiglio di Stato, sentenza n. 3943 del 2015).

E ancora in tale ipotesi di opere in presenza di domande di condono pendenti, la giurisprudenza ha stabilito che, in mancanza di un’espressa norma che impedisca di modificare immobili sui quali pende una domanda di sanatoria edilizia, la realizzazione di interventi successivi alla domanda giustifica il diniego se abbiano inciso in maniera così radicale sull’immobile oggetto della domanda di condono da rendere oggettivamente impossibile il relativo esame  (Cons Stato, Sez. VI, sent. n. 665 dell’1/2/2018 e n. 3943 del 14/8/2015).

Il fatto è che le opere posteriori potrebbero, come dire, “inquinare” lo stato dei luoghi alterando gli aspetti (come l’epoca di abuso) su cui invece la P.A. deve ancora esprimersi con adeguata istruttoria, e relativa conclusione che potrà avvenire con rilascio del titolo in sanatoria o perfino col diniego.

In tutto questo potrebbero infatti presentarsi imprevisti gravi come l’arrivo di nuovi vincoli storici o paesaggistici, su cui c’è poco da scherzare.

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carlo pagliai

CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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