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Se la disciplina regionale sottace il mutamento d’uso in alcuni casi è soggetto a Permesso di Costruire

Molte regioni hanno disciplinato da decenni il cambio di destinazione d’uso con apposita legislazione

Il cambio di destinazione d’uso all’interno dei tessuti insediativi e nel territorio aperto ha assunto da molto tempo una valenza importante per evidenti motivi:

  • pianificare lo sviluppo e distribuzione della pressione antropica nel territorio;
  • gestire il carico urbanistico negli insediamenti urbani stessi;
  • organizzare politiche sugli oneri di urbanizzazione correlati a questa categoria di intervento;
  • prevedere la congruenza e sostenibilità degli standard urbanistici e dotazioni territoriali;

Più volte in questo blog si è trattato l’intricato ambito della destinazione d’uso, ci sarebbe materiale per scriverci un trattato.

Adesso si ritorna sull’argomento per chiarire quale sia il titolo edilizio idoneo in base alla tipologia di intervento.

La giurisprudenza, anche fino a poco tempo prima dell’entrata in vigore del Decreto “Sblocca Italia” n. 133/2014, aveva già statuito che il mutamento di destinazione d’uso, senza opere, assume valore giuridicamente rilevante solo quando si verifichi un passaggio tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico.

Al contrario lo riteneva giuridicamente irrilevante quando non determina tale passaggio, tranne che nei centri storici (zone omogenee “A” DM 1444/1968) dove il mutamento della destinazione d’uso rileva anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cass. Pen. III n. 50503/2016, Cass. Pen. III n. 39897/2014, Cass. Pen. III n. 9894/2009), in linea anche con la definizione di ristrutturazione edilizia ex art. 10 comma 1 lettera c).

Il cambio d’uso “libero” minerebbe l’equilibrio dell’assetto del territorio e di bilancio economico

La ragione per cui il cambio di destinazione d’uso senza opere non costituisce un’attività priva di vincoli risiede nel fatto che ne risulterebbero vulnerate le regole finalizzate ad assicurare un corretto ed equilibrato assetto del territorio. In caso contrario ciò potrebbe comportare l’inevitabile pericolo di compromissione degli equilibri stabiliti dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato n. 759 del 25 maggio 2012), potendo risultare pregiudicato anche l’interesse patrimoniale dell’ente: infatti gli interessati potrebbero potrebbero dotarsi di un titolo edilizio che sconta il pagamento di un minor contributo per il basso carico urbanistico, per poi mutare liberamente e gratuitamente la destinazione d’uso originaria senza corrispondere i maggiori oneri che derivano dal maggior carico urbanistico.

La destinazione d’uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione urbanistica.

Essa individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard e dotazioni territoriali, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona (Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009).

Infatti l’organizzazione e gestione del territorio comunale vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni. Le modifiche di destinazione non consentite incidono e negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale (Cass. Pen. III n. 5712/2014, e n. 24096 del 07/03/2008).

Perciò non è sufficiente dimostrare che il cambio di destinazione d’uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne ma occorre dimostrare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell’omogeneità, ovvero intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee. In caso contrario se il cambio di destinazione investe categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, determina un aggravamento del carico urbanistico esistente, assoggettato come minimo agli oneri di urbanizzazione e contributo sul costo di costruzione.

Sul punto interviene anche la Cassazione Penale III con sentenza n. 12904/2016, la quale statuisce che per il caso della trasformazione, attraverso opere interne ed esterne, di un immobile da deposito ad uso residenziale, rileva il nuovo art. 23-ter, comma 1 d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale costituisce ‘mutamento d’uso urbanisticamente rilevante’ ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate nel suddetto nuovo articolo 23-ter.

La sentenza di Cassazione interviene su quanto disposto nella sentenza 11.09.2015 n. 11216 del Tar Lazio-Roma, confermando quindi che solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire in quanto non incide sul carico urbanistico; eccezione a questo principio sono gli immobili situati in centro storico, oggetto di ristrutturazioni, come indicato dall’art 10 comma 1 lettera c).

Tra l’altro, il cambio d’uso tra diverse categorie funzionali non omogenee può implicare anche il reato di totale difformità, una tipologia di abuso edilizio grave (leggi l’articolo).

Il mutamento di destinazione d’uso è giuridicamente rilevante se compiuto tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico.

Nell’ambito delle stesse categorie funzionali possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico-contributivi stante le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria. La recente emanazione del Decreto ‘Scia 2’ ha rivoluzionato e chiarito le tipologie procedurali da applicare per le diverse fattispecie di intervento, avendo allegato ad esso un’essenziale tabella riassuntiva.

Seguendo la sola lettura del nuovo Testo Unico DPR 380/01 aggiornato col decreto Scia 2, salvo disposizioni regionali, ne consegue che il mutamento di destinazione d’uso risulta assoggettato a:

Nell’ambito della stessa categoria funzionale:

  • SCIA, per ristrutturazione edilizia fuori dai centri storici;
  • Permesso di costruire per ristrutturazione edilizia nei centri storici;

Con passaggio di categoria funzionale urbanisticamente rilevante:

Permesso di costruire, per ristrutturazione edilizia eseguita nei centri storici;

Tuttavia seguirà un approfondimento focalizzato proprio sul decreto Scia 2. La disciplina sui mutamenti di destinazione da molto tempo è caratterizzata da incertezze normative ed interpretative, prodotte purtroppo da una scoordinata rete di discipline regionali, alla quale si va ad aggiungere la tipica frammentazione delle regole contenute negli strumenti urbanistici locali.

Le regioni hanno piena facoltà di integrare e legiferare la materia, pur rispettando i principi previsti dalla legislazione nazionale riassunti nel precedente elenco.

L’art. 10, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ribadendo le previsioni contenute nell’art. 2, comma 60, legge n. 662 del 1996, nonchè dall’ultimo comma art. 25 L. 47/85, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti sono subordinati al più severo regime del Permesso di costruire) o a quello ordinario della SCIA.

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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