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La modifica funzionale dell’immobile è stata gradualmente regolamentata: da regime libero ai vari permessi e norme regionali

Ricostruire la storia normativa del mutamento di destinazione d’uso non è per niente facile, e sopratutto non lo è quando si deve ricostruire anche gli orientamenti giurisprudenziali intercorsi.

Ho trovato interessante estrapolare buona parte della sentenza di Consiglio di Stato n. 3667/2020, nella quale viene ricostruita con molta precisione la storia del regime normativo del cambio di destinazione d’uso degli immobili.

Sappiamo bene che è un regime che è stato modificato più volte anche di recente, con distinzioni sempre più complesse e puntuali: tra le tante, il rapporto con lo Stato Legittimo.

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Esiste un anno zero per i cambi di destinazione d’uso liberi da permessi?

Neanche la stessa ricostruzione fatta tra i vari orientamenti della giurisprudenza riesce ad individuare con certezza l’anno zero dei cambi di destinazione d’uso, cioè quel momento da cui si può considerare esistente la disciplina obbligatoria dei cambi di destinazione d’uso.

Infatti si può optare tra:

  1. legge “ponte” n. 765/1967
  2. legge Bucalossi n. 10/1977.

Nel primo ambito (legge ponte n. 765/67) come meglio dettagliato di seguito e in questo precedente articolo, è stato ritenuto che potesse ritenersi “libero” soltanto il mutamento senza modifiche di carattere edilizio intervenuto nel periodo compreso tra la vigenza della legge n. 1150/1942, come modificata dalla legge n. 765/1967, e la legge n. 10/1977, nel quale non veniva imposta alcuna previa autorizzazione nel caso in cui il cambio di destinazione venisse attuato senza opere (Cass. Pen. III n. 38005/2013, Cass. Pen. III n. 10477/2015).
Inoltre con l’entrata in vigore del successivo decreto attuativo DM 1444/68 ritengo sia stato conclamato il rapporto tra costruzione singola e l’incidenza arrecata attorno al suo contesto circostante, facente parte del famoso “carico urbanistico”.

Nel secondo ambito (legge 10/1977) è stato rilevato che l’introduzione del regime concessorio potesse ricomprendere qualunque trasformazione urbanistico edilizia del territorio, compresi i cambi funzionali con opere ed esclusi quelli senza opere (Cons. di Stato n. 824/1988).

Poi nel frattempo il legislatore iniziò a disciplinare meglio questa particolare categoria di trasformazione degli edifici, il mutamento di destinazione, iniziando con l’art. 25 L. 47/85 (modificato sostanzialmente con la L. 662/96. E poi il resto delle evoluzioni è andato avanti con l’arrivo del Testo Unico per l’edilizia DPR 380/01.

Sull’argomento del cambio di destinazione d’uso degli immobili rinvio all’intero elenco pubblicato sul blog.

Estratto sentenza di Consiglio di Stato n. 3667/2020

(omissis)

3.1.2 Il mutamento di destinazione d’uso c.d. “funzionale” di un’immobile, ossia realizzato senza opere edilizie ancorchè l’ordinamento lo qualifichi comunque quale illecito urbanistico-edilizio, costituisce una violazione alquanto diffusa, in ordine alla quale sono insorte non indifferenti questioni interpretative, non sempre agevolmente risolvibili anche al di là dell’apparente non complessità delle fattispecie, come per l’appunto nel caso qui in esame.

La problematica – come ben noto – si è storicamente aperta allorquando, per effetto dell’art. 3 della l. 28 gennaio 1977, n. 10, il titolo edilizio venne trasformato da licenza a provvedimento concessorio rilasciato dalle amministrazioni comunali a fronte del pagamento di una somma da parte dell’operatore privato qualificata come “contributo” e commisurato su due differenti componenti di costo che nell’ipotesi di nuove trasformazioni edilizie venivano tra di loro a sommarsi: l’ “incidenza delle spese di urbanizzazione” nonché il “costo di costruzione”.

In tal modo, quindi, nell’ordinamentoera stato introdotto il principio, a tutt’oggi vigente (cfr. art. 16 e ss. del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e succ. modd.) della necessaria contribuzione da parte del privato esercente lo ius aedificandi alle esigenze di infrastrutturazione e di sviluppo del territorio trasformato dall’attività edilizia.

Il principio solidaristico promanante dall’art. 2 Cost. si impone quale fondamento di ordine generale affinchè il privato partecipi all’onere gravante sul Comune (e in senso lato sulla collettività) r che deriva dall’aumento del c.d. “carico urbanistico”, comportante la costruzione o l’adeguamento delle opere di urbanizzazione, menzionate dall’art. 4 della l. 29 settembre 1964, n. 847 e succ. modd., – nonché ,eventualmente dalla legislazione regionale – necessarie a organicamente inserire nel territorio la nuova realizzazione del privato: e ciò, dunque, anche nella considerazione che l’urbanizzazione delle aree costituisce un presupposto del tutto inderogabile per l’ordinato svolgersi dell’attività edilizia, e posto che le aree medesime acquisiscono, proprio mediante l’intervento pubblico preordinato alla loro urbanizzazione, un beneficio economicamente rilevante.

Il principio stesso, peraltro, proprio in quanto si fonda sul presupposto della necessità della corresponsione da parte del privato di un contributo connesso alla sua diversificata fruizione del territorio, evidentemente non può esaurirsi al mero dato – per così dire “appariscente” – dell’inserimento su di una determinata area di una nuova opera edilizia, ma deve pure estendersi, coerentemente alla stessa intrinseca logica che lo sorregge, anche alle modifiche dell’utilizzo degli immobili già esistenti nel territorio: e ciò in quanto un loro mutamento di destinazione d’uso non si esaurisce soltanto nella necessità, agli effetti di una mutata capacità contributiva (art. 53 Cost.), di una variazione di categoria e di rendita catastale, a’ sensi del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 650 e delle relative disposizioni applicative, ma richiede anche una riconsiderazione del costo di inserimento dell’immobile medesimo nel contesto dell’urbanizzazione presente nella zona.

A fronte delle disposizioni legislative, sia di fonte statale che regionale, nonché di quelle di fonte regolamentare comunale che sono intervenute in prosieguo di tempo a normare la fattispecie, la relativa violazione o elusione permane – come rilevato dianzi – alquanto frequente e – per così dire “liquida -posto che la stessa assenza di opere edilizie consente una più elevata libertà di azione e di conseguente occultamento del proprio operato all’autore dell’abuso.

Spesso, inoltre, il profilo dell’illecito urbanistico – edilizio risulta concomitante con quello fiscale, ovvero il mutamento apportato persegue fini di maggiore lucro, come ad esempio accaduto in un determinato momento storico allorquando si riscontrarono numerose trasformazioni dell’utilizzo abitativo di immobili in utilizzo commerciale al fine di evitare su di essi l’applicazione della disciplina sul c.d. “equo canone” contenuta nella l. 27 luglio 1978, n. 392.

Prima dell’entrata in vigore della l. 28 febbraio 1985, n. 47, che ha per la prima volta introdotto sotto il profilo urbanistico-edilizio alcune disposizioni relative alla modifica della destinazione d’uso degli immobili, il fenomeno era stato soprattutto considerato dalla giurisprudenza penale, con esiti non sempre unanimi circa la sussistenza al riguardo – o meno – di ipotesi di reato sulla scorta della disciplina ad essa previgente, fondando in particolare le proprie valutazioni sull’art. 41 della l. 17 agosto 1942, n. 1150 come modificato dall’art. 13 della l. 6 agosto 1967, n. 765, nonché sull’art. 1 della l. 28 gennaio 1977, n. 10 e rimarcando comunque la necessità di garantire l’assetto urbanistico e il sistema di zonizzazione introdotto per effetto del d.m.. 2 aprile 1968, n. 1444 non solo nella fase di edificazione, ma anche nella fase di utilizzazione degli edifici: e ciò – per l’appunto – nel predetto presupposto che ogni mutamento di destinazione d’uso, anche senza opere, poteva avere ripercussioni sulla trasformazione urbanistica del territorio, violando in tal modo gli strumenti urbanistici e richiedendo pertanto l’assenso preventivo della pubblica amministrazione.

La sentenza di Cass. pen. SS.UU., 29 maggio 1982, n. 7102 sancì quindi da ultimo, in tale contesto, il principio in forza del quale il mutamento di destinazione d’uso di un immobile senza realizzazione di opere edilizie costituiva reato a’ sensi dell’allora vigente art. 17, lett. a) della l. n. 10 del 1977 se il mutamento aveva avuto per oggetto un immobile edificato successivamente all’entrata in vigore della l. n. 765 del 1967, se esso era stato realizzato in contrasto con gli strumenti urbanistici e se si trattava di mutamento comportante la traslazione non precaria dell’immobile dall’una all’altra delle categorie urbanistiche stabilite dalla normativa sugli standards urbanistici.

A sua volta, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, sempre in epoca precedente all’entrata in vigore della l. n. 47 del 1985, era pervenuta a conclusioni alquanto diverse.
Fino al 1982 era stato infatti correntemente affermato che il mutamento di destinazione d’uso di un immobile non doveva reputarsi assoggettato né a concessione edilizia ovvero ad autorizzazione se non in concomitanza di lavori di ristrutturazione, fermo restando il controllo pubblico eventualmente stabilito da altre discipline di settore, come regolamenti d’igiene, di commercio o di pubblica sicurezza (così, ad es., Cons. Stato, Sez. IV, 28 luglio 1982, n. 525,): e ciò in quanto nessuna delle norme legislative vigenti in materia urbanistica all’epoca attribuiva alla autorità amministrativa il potere “di imporre, o vietare, ai privati, la scelta di uso determinato tra quelli cui un immobile, dato nella sua consistenza e configurazione, è virtualmente idoneo senza bisogno di lavori di trasformazione” (cfr., testualmente, ibidem).

Tale conclusione veniva essenzialmente a fondarsi sul dato testuale dell’art. 1 della l. n. 10 del 1977, posto che esso, nell’assoggettare a concessione “ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” ineludibilmente doveva interpretarsi nel senso di escludere dalla sua applicazione i semplici cambi di destinazione d’uso senza interventi edilizi (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 14 dicembre 1988, n. 824).

Per effetto della l. n. 47 del 1985 sono stati successivamente introdotti tre articoli relativi al mutamento di destinazione d’uso, con o senza opere.

L’art. 8 disponeva, per quanto qui segnatamente interessa, nel senso che “le Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968”.

Il susseguente art. 26, primo comma, disponeva quindi che “non sono soggette a concessione né ad autorizzazione le opere interne alle costruzioni che … non modifichino la destinazione d’uso delle costruzioni e delle singole unità immobiliari …”.

L’art. 25, ultimo comma, nel suo testo originario, disponeva a sua volta che “la legge regionale stabilisce, altresì, criteri e modalità cui dovranno attenersi i Comuni, all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d’uso degli immobili nonché dei casi in cui per la variazione di essa sia richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale autorizzazione comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 10 ed il conguaglio del contributo di concessione se dovuto”.

Pur nella sopravvenuta vigenza di tali disposizioni, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha seguitato in varie circostanze ad affermare che il mutamento di destinazione d’uso funzionale non era di per sé assoggettato al regime della concessione edilizia (cfr., ad es., Cons. Stato, Sez. V, 10 marzo 1999, n. 231 e 13 febbraio 1999, n. 98; Sez. IV, 25 gennaio 1993, n. 84).

Con sentenza n. 73 dd. 11 febbraio 1991 la Corte Costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 5 e 117 Cost., l’art. 76, primo comma, punto 2 della legge regionale del Veneto 27 giugno 1985, n. 61 (Norme per l’assetto e l’uso del territorio) come modificato dall’art. 15 della l.r. 11 marzo 1986, n. 9, ha avuto modo di interpretare in via sistematica le disposizioni surriportate.

Il Giudice delle Leggi ha in tal modo esplicitamente distinto il mutamento di destinazione d’uso con opere dal mutamento di destinazione d’uso “funzionale”, ossia senza opere, riferendo al primo la disciplina contenuta nel predetto art. 8, nonché nell’art. 26.

Secondo l’interpretazione della Corte Costituzionale le disposizioni contenute nel predetto art. 8 dovevano ricondursi a norme di principio vincolanti per le Regioni, tenendo presente che l’unica norma che ivi prevedeva il rilascio della concessione edilizia per il mutamento di destinazione d’uso contemplava al riguardo la compresenza di due condizioni, ossia:

1) poiché il surriferito art. 8 faceva riferimento a una modifica strutturale del progetto costruttivo assentito, doveva trattarsi di mutamento di destinazione d’uso con opere;

2) in ogni caso la trasformazione doveva comportare un mutamento degli standards, ossia la variazione da una tipologia di categoria contemplata dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 ad un’altra categoria ivi parimenti contemplata.

La mancanza di una di tali due condizioni determinava, pertanto, il venir meno del presupposto voluto dalla legge per l’assoggettamento del mutamento di destinazione d’uso al regime della concessione edilizia.

Per quanto segnatamente attiene all’art. 26, primo comma, esso è stato interpretato dalla Corte Costituzionale nel senso che il mutamento di destinazione d’uso con opere interne era assoggettato al rilascio di autorizzazione, “ciò desumendosi dall’eccezione ivi espressamente prevista rispetto al regime ordinario delle opere interne” (cfr. sentenza n. 73 del 1991 cit.).

Lo stesso Giudice delle Leggi ha quindi ricondotto l’ambito di applicazione del predetto art. 25, primo comma, della l. n. 47 del 1985 alla disciplina del mutamento di destinazione d’uso senza opere, interpretandolo nel senso che:

1) il mutamento di destinazione d’uso funzionale poteva essere assoggettato soltanto ad autorizzazione;

2) l’autorizzazione era prevista solo per ambiti territoriali delimitati;

3) per l’assoggettamento ad autorizzazione necessitava il duplice intervento della Regione e del Comune;

4) l’assoggettamento al regime autorizzatorio non poteva limitarsi al provvedimento regionale perché compito indefettibile del Comune era quello di “un preventivo apprezzamento di insieme del territorio diretto a verificare se dalla mutata utilizzazione possano effettivamente derivare situazioni di incompatibilità con il tessuto urbanistico”.

In buona sostanza, quindi, la Regione era competente a normare i criteri generali e astratti degli interventi, nel mentre al Comune era riservato il potere di applicare in concreto tali criteri nel proprio territorio.

Successivamente l’art. 2, comma 60, della l. 23 dicembre 1996, n. 662 ha sostituito il surriportato testo dell’art. 25 (L. 47/85, nota del redattore) con il seguente: “le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti siano subordinati ad autorizzazione”.

Tale disciplina, superando di fatto il contenuto della sopradescritta sentenza della Corte Costituzionale, ha in questo modo interamente devoluto alle Regioni la discrezionalità di individuare con propria fonte legislativa i mutamenti di destinazione d’uso da assoggettare a provvedimento autorizzativo, esercitando pertanto con ciò la scelta se limitarsi alla disciplina del solo mutamento di destinazione d’uso con opere, ovvero di comprendere e di disciplinare nella propria legge anche il mutamento di destinazione d’uso funzionale.

In tale discrezionalità era – altresì – ricompresa anche la determinazione di quali provvedimenti di assentimento prevedere, ossia se la sola concessione, o la sola autorizzazione, ovvero – a seconda dei casi – l’una o l’altra, ovvero nessuna delle due.

Tale materiale normativo è stato quindi – da ultimo – traslato nel corpus del t.u. approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e successive modifiche.

L’art. 10, comma 2, di tale testo coordinato delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia edilizia disponeva infatti, mediante apposita disposizione legislativa che riprendeva l’anzidetto assunto del novellato testo dell’art. 25, ultimo comma, della l. n. 47 del 1985 coordinandolo con la susseguente evoluzione definitoria dei titoli edilizi, nel senso che “le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività”.

Va soggiunto che, successivamente ai fatti di causa, per effetto dell’art. 17, comma 2, lett. a), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133 , convertito con modificazioni con l. 11 novembre 2014 n. 164, la surriportata disposizione è stata modificata, sempre in dipendenza della necessità di coordinarla con l’ulteriormente mutato assetto ordinamentale dei titoli edilizi, nel senso che “le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attivita’”.

Per quanto segnatamente attiene alla Regione Lazio, va comunque qui opportunamente rilevato che a’ sensi dell’art. 7 della l.r. 2 luglio 1987, n. 36, così come vigente sia all’epoca dei fatti di causa, sia al giorno in cui la presente causa è stata introitata per la decisione, “gli strumenti urbanistici generali debbono, per ciascuna delle zone omogenee previste dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, stabilire le categorie di destinazione d’uso ammesse con riferimento a quelle previste dagli articoli 14 e 15 della legge regionale 12 settembre 1977, n. 35” (ossia costruzioni a carattere residenziale, costruzione residenziale di servizio, costruzioni o impianti destinati ad attività turistiche, commerciali e direzionali, complessi turistico-ricettivi complementari, costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali). I piani particolareggiati e gli altri strumenti attuativi potranno, nell’ambito di ciascuna delle categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, procedere all’indicazione di più specifiche destinazioni d’uso. Le modifiche di destinazione d’uso con o senza opere a ciò preordinate, quando hanno per oggetto le categorie stabilite dallo strumento urbanistico generale, sono subordinate al rilascio di apposita concessione edilizia, mentre quando riguardano gli ambiti di una stessa categoria sono soggette ad autorizzazione da parte del sindaco” (cfr. ivi, primo comma; il secondo comma, prima parte, dispone, viceversa, che nei centri storici, come definiti dall’art. 2 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, “è di norma vietato il mutamento delle destinazioni d’uso residenziali”).

E’ pure opportuno rilevare che, sempre nell’attuale contesto dell’art. 10, comma 2, del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001, la giurisprudenza penale reputa sussistente il reato di cui all’art. 44, lett. b), del medesimo testo unico nelle sole ipotesi in cui il mutamento di destinazione duso è “giuridicamente rilevante”, e cioè quello realizzato tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, tenuto conto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistico – contributivi, stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria, ma non – per l’appunto – tra categorie diverse (cfr. al riguardo, ad es., Cass. pen. Sez. III, 8 novembre 2018, n. 6366, anche con esplicito riferimento al medesimo assunto di Cons. Stato, Sez. V, 3 gennaio 1998, n. 24; ex multis, pervengono a identiche conclusioni anche Cons. Stato, Sez. V, 2 febbraio 1995, n. 180, e 13 maggio 1993, n. 600 e 13 febbraio 1993, n. 245; cfr., altresì, nel medesimo senso la più recente Cass. pen. Sez. III, 3 luglio 2019, n. 36689 che perviene ad identiche conclusioni per l’ipotesi di trasformazione di un magazzino in un luogo di culto realizzata senza opere edilizie, anche con espresso richiamo in questo caso a Cons. Stato, Sez. IV, ordinanza 10 maggio 2011, n. 2008).

Va – altresì – opportunamente rilevato che, sempre in epoca successiva ai fatti di causa, la disciplina dell’istituto del mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie è stato ulteriormente innovato per effetto dell’art. 17, comma 1, lett. n), del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. È stato inserito nel corpus del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 il nuovo art. 23-ter, intitolato “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” e così formulato:

“1. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorchè non accompagnata dall’esecuzione di opere edilizie, purchè tale da comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”

“2. La destinazione d’uso di un fabbricato o di una unità immobiliare è quella prevalente in termini di superficie utile”.

“3. Le Regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le disposizioni del presente articolo. Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.

Mediante la surriportata disciplina, significativamente contenuta nel c.d. “decreto sblocca – Italia” il legislatore statuale si è di fatto riattribuito la competenza nella disciplina dell’istituto, ponendo con ciò fine ad un problema ermeneutico non trascurabile insorto a seguito della sostituzione apportata all’originario testo dell’art. 25, ultimo comma, della l. n. 47 del 1985 per effetto della l. n. 662 del 1996 e della susseguente sua “traslazione” all’interno dell’art. 10 stesso del t.u. n. 380 del 2001, ossia quale fosse la disciplina di riferimento legislativo in concreto applicabile qualora il legislatore regionale si fosse astenuto dal legiferare in materia.

Da ciò è dunque scaturita una disciplina di principio, ad avviso del Collegio cogente – stante la natura stessa del provvedimento legislativo che l’ha introdotta (non a caso nel suo titolo finalizzata ad introdurre riforme di “sistema” – tra l’altro – nell’ambito della semplificazione burocratica, nonchè per la ripresa delle attività produttive) anche per le stesse autonomie speciali, quale norma di riforma economico-sociale che si sovrappone alla clausola di salvaguardia contenuta nell’art. 2, comma 2, del t.u. n. 380 del 2001 (cfr. l’art. 14, comma 1, lett. f) dello Statuto speciale di autonomia della Regione Siciliana approvato con r.d.l. 15 maggio 1946, n. 455 e succ. modd.; l’art. 3, lett. f), dello Statuto speciale di autonomia della Regione Sardegna approvato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 e succ. modd.; l’art. 2, lett. g), dello Statuto speciale di autonomia della Regione Valle d’Aosta approvato con l. cost. 26 febbraio 1948, n. 3 e succ. modd.; l’art. 8, n. 5, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Trentino Alto Adige – Südtirol di cui al t.u. approvato con d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 e succ. modd., per quanto segnatamente attiene alle competenze delle Province autonome di Trento e di Bolzano; l’art. 4, n. 12, dello Statuto speciale di autonomia della Regione Friuli Venezia Giulia approvato con l.cost. 31 gennaio 1963, n. 1 e succ. modd.).

Come risulta ben evidente, la nuova disciplina di fonte statuale dell’istituto introduce – ora – una fondamentale bipartizione sistemica tra mutamenti di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti e non, nei seguenti termini: se con il mutamento di destinazione d’uso cambia l’utilizzazione dell’immobile tra quelle di cui alle lettere dalla a) alla d) del surriportato comma 1, si tratta di mutamento d’uso rilevante ai fini della rideterminazione degli oneri di urbanizzazione; nel mentre, nel caso in cui per effetto del mutamento di destinazione d’uso la categoria funzionale rimane la stessa, non è possibile ricondurre la relativa fattispecie ad un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante.

3.1.3. Alla conclusione di tale excursus storico-sistematico dell’istituto, si può pertanto affermare che già all’epoca dei fatti di causa costituiva comunque ius receptum la definizione del mutamento di destinazione d’uso quale “attività volta a vincolare in maniera non precaria una costruzione ad una determinata utilizzazione, classificabile fra quelle correnti in materia urbanistica” (così, puntualmente, Cass. pen., Sez. III, 13 giugno 1983, n. 7404),da reputarsi illecita se avvenuta senza previo assenso dell’amministrazione comunale tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre nell’ambito della medesima categoria, eccezion fatta per i centri storici, gli eventuali mutamenti di fatto non incidono sul carico urbanistico della zona e sono pertanto urbanisticamente irrilevanti (cfr., ex multis, Cass., Sez. III, 19 giungo 2018, n. 52398 e 22 maggio 2014, n. 20773, che ravvisano al riguardo, nell’ipotesi di illecito, il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b) del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001; cfr., altresì, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 45 e Sez. V, 21 dicembre 1992, n. 1547 ).

Allo scopo di stabilire se vi sia stata modifica della destinazione d’uso di un immobile devono essere considerate non tanto le concrete modalità di utilizzazione del bene, quanto piuttosto delle oggettive attitudini funzionali acquisite dal bene stesso (Cons. Stato, Sez. V; 24 ottobre 1996, n. 1268), non risultando al riguardo rilevanti – se considerate per se stanti – le risultanze catastali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 9 settembre 2009, n.5417).

3.1.4 A questo punto va necessariamente chiarito il rapporto che è venuto a determinarsi tra la progressiva evoluzione della disciplina dell’ipotesi della realizzazione del mutamento di destinazione d’uso, dianzi disaminata al § 3.1.2 della presente sentenza, e le disposizioni eccezionali in materia di condono edilizio a loro volta succedutesi nel tempo (cfr. al riguardo l’art. 31 e ss. della l. 28 febbraio 1985, n. 47 e succ. modd., l’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 e succ. modd. nonché l’art. 32 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269 convertito con modificazioni con l. 24 novembre 2003, n. 326).

Il primo condono, disciplinato in via esclusiva dall’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, ab origine testualmente presupponeva soltanto la sanatoria della realizzazione di “opere”: ciò si ricava dalla lettura delle 4 voci descrittive delle categorie di abuso contenute nella tabella annessa alla legge medesima.

In particolare, la tipologia n. 4 contemplava, segnatamente, le “opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia o concessione che non comportino aumenti della superficie utile o del volume assentito; opere di ristrutturazione edilizia come definite dall’articolo 31, lettera d), della legge n. 457 del 1978, realizzate senza licenza edilizia o concessione o in difformità da essa; opere che abbiano determinato mutamento di destinazione”.

In buona sostanza, quindi, il legislatore si era letteralmente riferito soltanto alle ipotesi in cui il mutamento della destinazione d’uso era stato realizzato – per l’appunto – mediante “opere”.

Per effetto dell’art. 2, comma 53, della l. 23 dicembre 1996, n. 662 è stata approvata un’interpretazione autentica, tale quindi da retroagire agli effetti sia del condono edilizio originariamente previsto dall’art. 31 e ss. della l. 47 del 1985, sia del susseguente condono edilizio previsto dall’art. 39 della l. 23 dicembre 1994, n. 724 che di fatto ne ha riaperto procedure e termini mediante l’applicazione delle medesime disposizioni, nel senso che “la tipologia di abuso di cui al numero 4 della tabella allegata alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, deve intendersi applicabile anche agli abusi consistenti in mutamenti di destinazione d’uso eseguiti senza opere edilizie”.

Lo stesso problema si è peraltro riproposto anche con riguardo al condono edilizio disciplinato dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con modificazioni con l. n. 326del 2003.

Per tale evenienza il legislatore, nella tabella 1 annessa al testo legislativo, aveva contemplato 6 tipologie di abuso, tutte peraltro testualmente contemplanti, nella loro definizione, l’avvenuta realizzazione di “opere”.

La prassi ha in questo caso individuato la tipologia 1 di abusi (“Opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”; ai fini di causa può denotarsi che la definizione è corrispondente a quella contenuta nella tabella A annessa alla l.r. 8 novembre 2004, n. 12, attuativa di tale sanatoria nella Regione Lazio) come inclusiva anche delle ipotesi di mutamento d’uso funzionale, posto queste ultime costituiscono comunque “variazione essenziali” ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. a), del t.u. approvato con d.P.R. n. 380 del 2001 (nel caso del Lazio, anche a’ sensi dell’art. 17 comma 1, lett. a), della l. reg. 11 agosto 2008, n. 15) qualora si sostanzino nel passaggio ad una più gravosa destinazione d’uso che ha maggiore incidenza sugli standard urbanistici previsti dal d.m. 2 aprile 1968, n. 1444.

La giurisprudenza, avendo a sua volta parimenti riguardo, in via principale, alle ipotesi di mutamento di destinazione d’uso mediante realizzazione di “opere”, ha avuto modo di rilevare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 31, secondo comma, della l. n. 47 del 1985 che ai fini dell’applicabilità della normativa in materia di condono edilizio, in caso di mutamento delle destinazioni d’uso, la locuzione “ultimazione” riferita alle opere abusive va intesa in senso funzionale, con riguardo cioè al momento in cui l’immobile acquista caratteristiche che oggettivamente e univocamente risultano idonee alla nuova destinazione (Cons. Stato, Sez. IV, 26 gennaio 2009, n. 393); e che, pertanto, per “completamento funzionale” deve intendersi la realizzazione delle principali opere necessarie per attuare il mutamento di destinazione, con la conseguenza che non è sufficiente che siano state realizzate opere incompatibili con la precedente destinazione, ma è altresì necessario che siano state poste in essere opere atte a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello assentito (Cons. Stato, Sez. V, 11 luglio 2014 n. 3558).

Invero, per i mutamenti di destinazione d’uso senza opere risulta del tutto assorbente la notazione che l’immobile sia stato “completato funzionalmente”, vale a dire che esso deve essere comunque già fornito di quanto è indispensabile a rendere effettivamente possibile un uso diverso da quello originariamente assentito (Cons. Stato Sez. V, 9 maggio 2011, n. 2750).

In altri termini, ai fini delle diverse discipline speciali in materia di condono edilizio succedutesi nel tempo, per gli abusi aventi ad oggetto mutamenti di destinazione d’uso meramente funzionali rilevava la necessità che, al momento rispettivamente previsto dalle discipline medesime al fine della sussistenza del requisito per ottenere la relativa sanatoria, l’immobile doveva essere già stato concretamente convertito al nuovo uso che gli era stato impresso, e cioè già in tal senso dotato di quanto fondamentalmente necessario per svolgervi l’attività posta in essere in dipendenza del suo mutamento di destinazione.

Se così è, quindi, risulta evidente che, non assumendo più rilievo il momento di realizzazione delle “opere” (edilizie) costituenti l’immobile, rimaste immutate proprio in quanto compatibili sia con il precedente che con il susseguente suo utilizzo, emerge – semmai – per queste evenienze la necessità di una comprova ìn ordine alla risalenza temporale dell’abuso costituita da ben altri elementi materiali che possono far acclarare, al caso, la sussistenza di un certo tipo di utilizzo dell’immobile rispetto ad un altro, costituiti soprattutto dalla nuova installazione, ovvero dal rinnovo degli impianti di cui al d.m. 22 gennaio 2008, n. 37, emanato in attuazione dell’art. 11-quaterdecies, comma 13, lett. a) della l. 2 dicembre 2005, n. 248, recante riordino delle disposizioni in materia di attività di installazione degli impianti all’interno degli edifici. (nella specie, particolarmente, gli impianti elettrici, idraulici, di riscaldamento e di condizionamento, nonché di distribuzione del gas rientranti nel novero delle prestazioni tecniche previste dall’art. 5, comma 2, del medesimo decreto ministeriale).

I progetti di tali impianti e le conseguenti certificazioni di conformità o di rispondenza devono essere invero depositati, a’ sensi dell’art. 5, comma 6, e 11 del d.m. n. 37 del 2008 presso lo Sportello unico per l’edilizia operante presso ciascun Comune: ma se tali progetti non richiedono la realizzazione di opere edili, nessun titolo edilizio è richiesto per la loro realizzazione (cfr. in tal senso l’inequivocabile disciplina contenuta nel comma 2 dell’art. 11 testè riferito: “Per le opere di installazione, di trasformazione e di ampliamento di impianti che sono connesse ad interventi edilizi subordinati a permesso di costruire ovvero a denuncia di inizio di attività, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, il soggetto titolare del permesso di costruire o il soggetto che ha presentato la denuncia di inizio di attività deposita il progetto degli impianti da realizzare presso lo sportello unico per l’edilizia del Comune ove deve essere realizzato l’intervento, contestualmente al progetto edilizio”): e ciò a fortiori vale anche per quegli impianti che eventualmente non raggiungano le prestazioni previste dal predetto art. 5, comma 2, del d.m. n. 37 del 2008 (per gli impianti elettrici, si richiede generalmente una potenza superiore a 6 Kw).

Per ineludibile conseguenza, quindi, gli impianti in questione non costituiscono – per se stanti – “opere edilizie” e, proprio in quanto non richiedono al fine della loro realizzazione il rilascio di titoli edilizi, non necessitano di sanatorie e di condoni edilizi in conseguenza dell’omesso adempimento dell’anzidetto previo deposito del relativo progetto presso lo Sportello unico dell’edilizia, ovvero del rilascio, da parte degli esecutori delle installazioni, dei certificati di conformità o di rispondenza previsti dal medesimo D.M. n. 37 del 2008, comportando le relative omissioni soltanto l’applicazione delle sanzioni pecuniarie ivi contemplate dall’art. 15.

A fortiori, la realizzazione di un mutamento di destinazione d’uso contraddistinto unicamente dalla realizzazione degli impianti surriferiti non può – quindi – in alcun modo essere configurato quale mutamento di destinazione d’uso con contestuale realizzazione di opere edilizie, ma va essenzialmente ricondotto ad un’ipotesi di mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale, la cui risalenza temporale può – peraltro, al fine della relativa sanatoria – essere utilmente comprovata anche mediante la documentata realizzazione degli impianti medesimi in un determinato periodo.

Sempre ai fini del rapporto sussistente tra il mutamento di destinazione d’uso abusivamente realizzato e l’applicazione delle predette norme speciali dettate in tema di condono edilizio, va opportunamente evidenziato, quale notazione di fondo, che con riguardo ad ogni tipologia di abuso, perpetrata sia mediante la realizzazione di opere, sia mediante il mutamento di destinazione d’uso meramente funzionale, è circostanza non infrequente che molti dei condoni edilizi chiesti e ottenuti a’ sensi sia dell’art. 31 e ss. della l. n. 47 del 1985, sia dell’art. 39 della l. n. 724 del 1994, sia dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 convertito con l. n. 326 del 2003, sono stati rilasciati anche quando sarebbe stato possibile chiedere al riguardo il rilascio di una sanatoria mediante il regime di accertamento di conformità, a’ sensi dell’allora vigente art. 13 della l. n. 47 del 1985, in quanto i relativi abusi risultavano comunque realizzati conformemente alle previsioni della strumentazione urbanistica vigente sia all’epoca a cui risaliva la perpetrazione degli abusi, sia alla data rispettivamente fissata dalle predette discipline speciali agli effetti della comprova della loro perdurante esistenza. (omissis)

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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