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Hanno rispettivamente scopi di conservazione e trasformazione dell’organismo edilizio

Le due categorie di intervento videro la luce per la prima volta con la L. 457/78

Nel corso del tempo hanno subito diverse modifiche e prassi applicative, in parte provenienti dalle norme e in parte anche dalla giurisprudenza.

Non possono neppure dirsi “apparentemente” simili in quanto perseguono distinti scopi di intervento e trasformazione dell’immobile.

Partiamo dalle definizioni originario proprie della L. 457/78, che attraverso l’art. 31 individuava un breve elenco di interventi edilizi sul patrimonio edilizio esistente, anche per integrare quell’eccessivo assoggettamento a Concessione Edilizia emanato l’anno precedente con la Legge 10/1977 “Bucalossi”:

  • lettera C: interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l’organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’organismo stesso, ne consentano destinazioni d’uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell’edificio, l’inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell’uso, l’eliminazione degli elementi estranei all’organismo edilizio;
  • lettera D: interventi di ristrutturazione edilizia, quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, la eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti;

La definizione di restauro e risanamento conservativo suona quasi come una “doppia categoria” in una.

Invece fin dalla sua prima stesura del 1978 è tale.

Essa accomuna due anime, ovvero:

  • il restauro come termine e disciplina strettamente architettonica (ed esecutiva)
  • il risanamento conservativo è quello più strettamente “burocratico” e amministrativo, forse quello più appropriato e rilevante per le tipologie di opere indicate nella descrizione normativa.

Certo, sulla questione del Restauro l’architettura si è profusa con proprie dottrine e prassi, che sorvoliamo.

Ho analizzato il Restauro/Risanamento Conservativo in questi approfondimenti (clicca qui).

Nella classifica della rilevanza e sostanzialità degli interventi, il restauro e risanamento conservativo è di grado inferiore alla ristrutturazione edilizia

Qualificare la categoria di intervento è vitale per la corretta esecuzione dell’opera e da un punto di vista “burokratico”.

Partiamo da un presupposto: entrambe le due categorie coinvolgono l’organismo edilizio con opere e interventi, pertanto occorre dare una definizione speditiva, considerato pure che non risulta individuato neppure dal Regolamento Edilizio Tipo (grossa mancanza!) emanato lo scorso novembre 2016.

Per organismo edilizio ritengo si debba ritenere un complesso edilizio nel suo insieme o di singola unità immobiliare, considerando con una visione olistica tutte le caratteristiche ed elementi sostanziali:

  • tipologia
  • struttura
  • distribuzione
  • architettura, sagoma e involucro
  • funzionalità e destinazione d’uso
  • sistema energetico e impianti

Gli interventi di restauro e ristrutturazione, ognuno coi propri ambiti applicativi, puntano alla modifica dell’organismo edilizio.

Il restauro e risanamento conservativo punta allo scopo di conservarne i caratteri previgenti.

Punta a consentire un intervento di trasformazione “moderato” e armonizzato con lo stato preesistente, sia concreto che funzionale.

La definizione di restauro in ambito edilizio urbanistico è diversa (e disgiunta) da quella prevista dall’art. 29 del Codice dei Beni Culturali, il quale statuisce:

4. Per restauro si intende l’intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione ed alla trasmissione dei suoi valori culturali. Nel caso di beni immobili situati nelle zone dichiarate a rischio sismico in base alla normativa vigente, il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale.

Si possono tuttavia rinvenire molti punti di contatti condivisibili tra le due discipline.

Col restauro si intende mantenere l’integrità materiale e il suo recupero per proteggere e tutelarne la conservazione e il valore culturale verso i posteri.

A differenza della ristrutturazione, il restauro e risanamento conservativo ha il fermo limite di non trasformare in tutto o in parte l’organismo edilizio. Si tratta di una disposizione di tipo qualitativa e priva di termini quantitativi. 

E su questo punto, la questione del mutamento di destinazione d’uso contestuale ai restauri è stata oggetto di recente discussione, anche con approfondimenti pubblicati in questa sede.

Nell’attuale definizione di restauro e risanamento è consentito, oppure posto un limite a seconda di come si osserva, un insieme sistematico di opere volte a conservare l’organismo, assicurandone la funzionalità e rispettare gli elementi tipologici, formali e strutturali di esso; lo stesso insieme sistematico di opere deve consentire destinazioni d’uso compatibili con tali elementi.

Quindi: è l’insieme sistematico di opere il vero protagonista, e non deve comportare l’incompatibilità tra destinazioni d’uso ed elementi. Il nesso sta tutto qui.

Ristrutturazione edilizia equivale a modificare la natura, sostanza e caratteri essenziali dell’organismo

La categoria di ristrutturazione edilizia, rispetto al restauro/R.C. come previsto dal DPR 380/01 e dal Codice dei Beni Culturali, comporta radicale ed integrale trasformazione dei componenti dell’intero edificio, con mutamento della qualificazione tipologica e degli elementi formali di esso, comportanti l’aumento delle unità immobiliari nonché l’alterazione dell’originale impianto tipologico – distributivo e dei caratteri architettonici» (Cass. Pen. III n. 6873/2017).

Quanto al mutamento di destinazione di uso di un immobile attuato attraverso la realizzazione di opere edilizie, deve ricordarsi che, qualora esso
venga realizzato dopo l’ultimazione del fabbricato e/o durante la sua esistenza, si configura in ogni caso un’ipotesi di ristrutturazione edilizia secondo la definizione fornita dall’art. 3, comma 1, lett. d) del DPR 380/01; ciò in quanto l’esecuzione dei lavori, anche se di entità modesta,
porta pur sempre alla creazione di “un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” (Cass. Pen. III n. 6873/2017).

Fatto salva diversa legislazione regionale, per la suprema corte di Cassazione Penale, non ha rilievo l’entità delle opere eseguite quando si consideri che la necessità del permesso di costruire permane per gli interventi di:

  • manutenzione straordinaria, qualora comportino modifiche delle destinazioni d’uso (art. 3, comma 1, lett. b, del cit. T.U.);
  • restauro e risanamento conservativo, qualora comportino il mutamento degli “elementi tipologia” dell’edificio, cioè di quei caratteri non soltanto architettonici ma anche funzionali che ne consentano la qualificazione in base alle tipologie edilizie (art. 3, comma 1, lett. c, cit. T.U.).

Gli interventi anzidetti, invero, devono considerarsi “di nuova costruzione”, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e, cit. T.U.E., in quanto incidenti sull’assetto urbanistico anche in termini di aumento di carico.

Fin qui la Cassazione Penale, soprattutto in merito alla vicenda fiorentina “Tornabuoni”.

Si ribadisce che la disciplina sul mutamento di destinazione d’uso è materia demandata alla legislazione regionale, soprattutto per quanto riguarda la contestuale esecuzione con opere e assoggettamento ai contributi e oneri di urbanizzazione.

La ristrutturazione edilizia, come categoria di intervento può arrivare contemplare interventi sostanziali e di profonda modifica.

I due principali rami o tipologie di ristrutturazione edilizia possono essere così sintetizzati:

  • entro sagoma: non comportano demolizione totale o parziale dell’involucro edilizio o dell’unità immobiliare;
  • fuori sagoma: comportano demolizione parziale, totale, con ricostruzione fedele o diversa dallo stato previgente.

Dal 2013 il Decreto del Fare ha modificato profondamente la definizione e categoria di intervento, introducendo un nuovo “spartiacque”, includendo nella ristrutturazione edilizia anche gli interventi di sostituzione integrale edilizia (demolizione e ricostruzione) effettuata mantenendo la stessa volumetria (togliendo il limite della sagoma).

Fu introdotto quello che viene definito “vincolo di sagoma“, di cui ne parlo in questo approfondimento (clicca qui).

Il superamento dei limiti e dell’ambito applicativo della ristrutturazione edilizia, tra cui appunto la demo-ricostruzione a parità di volume, comporta l’inquadramento dell’intervento nel regime di nuova costruzione, obbligatoriamente soggetto a Permesso di Costruire, salvo l’eventuale possibilità di utilizzare la cosiddetta “SuperScia” o meglio, Scia alternativa al Permesso di Costruire.

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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