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Parere Ufficio Legislativo Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo n. 30815 del 16/12/2015 in materia di paesaggistica.

N.B: è un parere, non va quindi inteso come giurisprudenza amministrativa.

Fonte: sito Mibact


Si riscontra la nota n. prot. 23979 del 6 ottobre 2015, con la quale codesta Direzione Generale ha chiesto a questo Ufficio se possa configurarsi una residua area di applicabilità dell’istituto dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria, in deroga al divieto sancito dall’art. 146, comma 4, del codice di settore, in relazione ad alcune fattispecie particolari, segnalate dagli uffici dipendenti, verificatesi nel territorio di alcune regioni (Calabria, Umbria, Puglia, Campania, Emilia Romagna).
I casi rappresentati (in estrema sintesi e con rinvio agli atti) riguardano:
interventi edilizi assentiti da alcuni Comuni (nelle Regioni Calabria, Umbria, Campania) con il solo titolo edilizio, omettendo di chiedere l’autorizzazione paesaggistica, in situazioni in cui non esisteva alcuna incertezza oggettiva circa la sussistenza del vincolo paesaggistico;
–    interventi edilizi abusivi ulteriori (di ristrutturazione o ampliamento) su immobili già abusivi, ma condonati dai Comuni (nelle Regioni Umbria e Campania) senza chiedere la prescritta autorizzazione paesaggistica, ovvero non ancora formalmente condonati, essendo rimaste inevase e tuttora in corso le relative istanze di condono presentate dagli interessati;
–    nuovi interventi su opere condonate dai Comuni (nella Regione Campania) senza l’autorizzazione paesaggistica, sull’erroneo presupposto dell’avvenuta caducazione del vincolo paesaggistico;
–    interventi edilizi oggetto di sanatoria o condono senza l’autorizzazione paesaggistica in area vincolata al momento del provvedimento di sanatoria, ma non anche all’epoca della realizzazione dell’intervento, sul presupposto della sufficienza della realizzazione dell’opera in periodo antecedente all’apposizione del vincolo (nella Regione Emilia Romagna);
interventi edilizi assentiti da Comuni (nella Regione Puglia) con il solo titolo edilizio, essendo stato ritenuto non sussistente il vincolo paesaggistico a causa dell’errata interpretazione cartografica o della diversa perimetrazione introdotta dal piano urbanistico (rispetto a quella stabilita dal provvedimento istitutivo del vincolo).

Le vicende relative alla Regione Calabria sono state rappresentate allo scrivente Ufficio anche con nota dell’Amministrazione regionale (prot. n. 79545 del 6 marzo 2014) concernente, in particolare, la situazione verificatesi nella maggior parte dei comuni calabresi, ove sarebbero stati realizzati numerosi interventi edilizi assentiti con il solo permesso di costruire rilasciato in difetto della presupposta autorizzazione paesaggistica. In particolare, la Regione ha chiesto “se agli interventi realizzati in difetto dell’autorizzazione paesaggistica entro giugno 2006, si possa applicare l’eventuale sanatoria paesaggistica postuma secondo la disciplina transitoria prevista dall’art. 159 (nella versione originaria)”. Tale situazione molto critica era stata già rappresentata a questo Ufficio dalla competente Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia, con propria nota prot. n. 1824 del 20 marzo 2014, che aveva precisato che le problematiche segnalate dalla Regione riguardavano aree vincolate con provvedimenti amministrativi la cui perimetrazione risultava chiaramente individuata e non poneva, pertanto, particolari problemi applicativi; che peraltro non sembrava possibile attribuire alcuna responsabilità ai titolari dei titoli edilizi, in quanto l’omessa richiesta di autorizzazione paesaggistica era dovuta ad omissione di alcuni Comuni, e che la zona interessata riguardava l’intera costa ionica e gran parte della tirrenica. La suddetta Soprintendenza aveva quindi chiesto, nell’eventualità in cui fosse ritenuta ammissibile la sanatoria paesaggistica postuma, precisazioni “in merito alla possibilità di considerare l’esame delle opere “ora per allora”, ovvero indicando eventuali prescrizioni che consentano, in alcuni casi, se non la demolizione di quanto realizzato, di migliorarne l’inserimento nel contesto”.

Un ulteriore caso è stato rappresentato, di recente, a questo Ufficio, dal Comune di Cornate D’Adda (nota del 7 ottobre 2015), relativamente ad opere realizzate in difformità dal titolo edilizio in epoca (1977) precedente alla esistenza del vincolo paesaggistico (istituzione del Parco Adda Nord).

Non essendo possibile procedere alla disamina analitica, caso per caso, delle singole fattispecie prospettate (ciò che peraltro esulerebbe dai compiti dell’Ufficio legislativo), occorre provare a cogliere il “minimo comun denominatore” che in qualche modo accomuna le svariate ipotesi applicative riferite, così da permettere allo scrivente di fornire talune coordinate interpretative di carattere generale utili per una declinazione applicativa specifica da parte dei competenti uffici tecnici periferici.
Volendo in tal senso provare a operare una sintesi della pur ampia e diversificata casistica proposta dagli Uffici, sembra che il punto di diritto che accomuna tali svariate fattispecie possa riassumersi nella questione dell’applicabilità del divieto di sanatoria ex post in relazione alle seguenti classi tipologiche di casi:
1.    interventi edilizi realizzati prima dell’entrata in vigore del primo decreto correttivo e integrativo del codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157), che (secondo l’opinione prevalente) ha reso operativo il divieto di sanatoria postuma, ma pervenuti all’esame dell’autorità amministrativa soltanto dopo (non per colpa della parte privata) l’entrata in vigore del nuovo regime di divieto di sanatoria;
2.    interventi realizzati, anche successivamente alla suddetta data, senza l’autorizzazione paesaggistica a causa delle condizioni di obbiettiva incertezza (e, in alcuni casi, di indeterminatezza) dell’ambito spaziale del vincolo paesaggistico (sia esso di tipo provvedimentale o ex lege);
3.    interventi realizzati successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 157 del 2006 e in assenza delle suddette condizioni di obbiettiva incertezza, assentiti dai Comuni con il solo titolo edilizio.

Il trattamento giuridico appropriato per ciascuna delle ora elencate classi tipologiche di fattispecie è naturalmente diversificato: per il primo caso, come si dirà più analiticamente in prosieguo, la perdurante dubbiezza (pur nel quadro del generale principio di certezza delle regole) della questione della applicabilità ai rimedi amministrativi ripristinatori particolarmente afflittivi del regime “penale” della irretroattività (riferibile alle sanzioni amministrative in senso stretto o proprio) non sembra consentire allo stato una risposta risolutiva e suggerisce (o impone) la proposizione di un apposito quesito al Consiglio di Stato; per il secondo caso, come vedremo, sarà invece possibile fornire una risposta positiva e risolutiva (in linea con i precedenti pareri dall’Ufficio in subiecta materia); per il terzo caso, infine, la risposta non potrà che essere negativa, nel senso della necessità di procedere all’irrogazione delle dovute sanzioni demolitorie.

Occorre premettere in linea generale che (come è noto) l’art. 146, comma 4, del codice dei beni culturali e del paesaggio, innovando rispetto al precedente assetto normativo, ha  escluso la sanabilità degli abusi paesaggistici (Fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi…). L’art. 167, commi 4 e 5, del predetto codice, limita l’accertamento della compatibilità paesaggistica ad alcune fattispecie marginali, escludendo, comunque, i lavori che abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi, ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati. Il divieto di sanatoria ex post è stato introdotto dalla versione originaria del codice [art. 146, comma 10, lett. c)] ed è stato poi confermato a seguito delle modifiche apportate dai due decreti correttivi del 2006 e del 2008 (dd.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 e 26 marzo 1008, n. 63; il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria è oggi contenuto al comma 4 dell’art. 146). La giurisprudenza, dopo complessa elaborazione, si è attestata nella conclusione — oggi sostanzialmente consolidata — per cui l’applicabilità di tale divieto di sanatoria ex post decorrerebbe a partire dall’entrata in vigore del primo decreto correttivo, nel 2006 (Cons. Stato, sez. VI, 2 maggio 2007, n. 1917 Cons. Stato, sez. V, 21 maggio 2009, n. 3140, che hanno superato l’iniziale impostazione di Cons. Stato, sez. II, par. 25 settembre 2007, n. 1557/2007).

In merito all’applicazione del divieto di sanatoria ex post, sancito dagli articoli succitati, erano sorte alcune, complesse, problematiche, già negli anni passati portate all’attenzione dello scrivente Ufficio. Era invero emersa la eccessiva rigidità del combinato disposto degli artt. 146, comma 4, e 167, comma 4, del codice del 2004, che — innovando radicalmente rispetto al sistema previgente, come assestato dalla giurisprudenza – non consentivano più (se non in piccoli casi) la sanatoria ex post degli abusi paesaggistici, con la conseguente difficoltà nel trattamento di casi in cui gli interventi erano stati realizzati prima dell’entrata in vigore del nuovo (più severo) regime (quando la prevalente giurisprudenza ammetteva la possibilità di irrogazione di una sola sanzione pecuniaria, con salvezza dell’immobile o dell’intervento realizzato abusivamente), ma erano poi giunti all’esame dell’autorità amministrativa soltanto dopo (non per colpa della parte privata) l’entrata in vigore del nuovo regime di divieto di sanatoria. Questa difficoltà risultava in taluni casi aggravata dalla presenza, nelle fattispecie esaminate, di condizioni di incertezza (e, spesso, di vera e propria indeterminatezza) dell’ambito spaziale del vincolo paesaggistico, sia esso di tipo provvedimentale (odierno art. 136 del codice di settore), sia esso ex lege “Galasso” n. 431 del 1985 (odierno art. 142 del medesimo codice).
Tali profili problematici intercettano entrambi aspetti di diritto intertemporale e di certezza delle regole di conseguente tutela della buona fede e dell’affidamento dei privati proprietari, possessori o detentori di immobili che, nel primo caso, al tempo della realizzazione e del completamento dell’intervento avrebbero potuto confidare in una sostanziale sanatoria dell’abuso, mediante pagamento di una sola pena pecuniaria (previo accertamento della compatibilità paesaggistica di quanto abusivamente realizzato), mentre, successivamente all’entrata in vigore del nuovo regime, al momento del tardivo (non per loro colpa) esame della loro posizione amministrativa, si sono visti preclusa tale più favorevole possibilità per essere astretti all’interno del più afflittivo regime sanzionatorio odierno, che impone pressoché in ogni caso la demolizione del manufatto abusivo, a prescindere dalla sua astratta compatibilità paesaggistica; o che — nella seconda casistica — solo successivamente al completamento degli interventi hanno potuto avere conoscenza del fatto che gli immobili erano (o sarebbero stati) in realtà già sottoposti a vincolo paesaggistico (con la connessa necessità dello speciale titolo autorizzativo ex art. 146 del codice di settore).
Orbene, questo Ufficio legislativo si era già espresso in ordine a siffatte tematiche rispondendo ad alcuni quesiti posti dagli Uffici periferici, muovendo nella direzione di tentare di introdurre in via interpretativa mitigazioni all’eccessivo rigore della norma.
In particolare, con i pareri n. 9907 del 29 maggio 2012 e n. 19922 del 14 novembre 2012, sono state date indicazioni in merito alla situazione verificatasi in alcuni Comuni delle Regioni Toscana e Veneto (Greve in Chianti e Jesolo), ove risultavano già realizzati numerosi interventi costruttivi assentiti con il solo permesso di costruire, rilasciato in difetto della presupposta autorizzazione paesaggistica, a causa di un’errata valutazione, da parte degli uffici comunali e degli stessi uffici periferici ministeriali, per un lungo lasso di tempo, dell’ambito spaziale di conterminazione del vincolo (ex lege “Galasso”, ora articolo 142, comma 2, del Codice dei beni culturali e del paesaggio), errata valutazione a sua volta cagionata dall’oggettiva incertezza del suo perimetro applicativo (e tutto ciò senza che alcuna responsabilità potesse addebitarsi ai privati costruttori, i quali avevano adempiuto all’onere di munirsi del permesso di costruire e non potevano che aderire all’affermazione della non necessità dell’autorizzazione paesaggistica costantemente proveniente dalle medesime amministrazioni preposte alla gestione del vincolo, competenti a rilasciarla).
Con il parere n. 4157 del 13 marzo 2013, questo Ufficio si è espresso nella stessa direzione interpretativa in merito ad alcuni casi in cui la situazione di incertezza applicativa era riferita a vincoli provvedimentali: nel territorio di un Comune del Veneto (San Martino Buon Albergo) risultavano assentiti, da un cinquantennio, numerosi interventi edilizi sulla base del solo titolo edilizio in carenza della presupposta autorizzazione paesaggistica, e ciò sull’errata convinzione che, su una determinata porzione territoriale, fossero venuti meno —per una complicatissima vicenda di riesame, mai ben definita – gli effetti di un precedente provvedimento di tutela paesaggistica.
Nelle fattispecie esaminate con i citati pareri è peraltro emerso anche il primo e ulteriore, ancorché connesso, profilo di diritto intertemporale sopra anticipato, riguardante più specificamente la natura della “sanzione” demolitoria obbligatoria (priva dell’alternativa pecuniaria), rispetto ai principi desumibili dalla legge n. 689 del 1981 in ordine alla irretroattività degli aggravamenti dei trattamenti sanzionatori, sotto il riflesso dell’applicabilità o meno del divieto di sanatoria ex post ai fatti commessi (interventi ultimati) prima dell’entrata in vigore del nuovo, più severo, regime sanzionatorio, e ciò anche a prescindere dal tema dell’incertezza o incompletezza o indeterminatezza dei dispositivi di vincolo.
In particolare, tale ultimo aspetto è stato affrontato con il parere n. 12627 del 22 luglio 2013, con il quale questo Ufficio ha dato indicazioni in merito ad un caso (stabilimento in zona industriale del Comune di Poggio Imperiale) in cui l’abuso edilizio era stato realizzato prima dell’entrata in vigore della riforma concernente l’applicazione del divieto di autorizzazione paesaggistica postuma (artt. 146, comma 4, e 167 del d.lgs. n. 42 del 2004 e s.m.i.), sancita dal primo decreto correttivo del codice di settore, di cui al decreto legislativo n. 157 del 2006.

Puntualizzate le questioni giuridiche oggetto di esame e ripercorse brevemente le precedenti pronunce rese dall’Ufficio sul tema, è possibile ora procedere all’esame puntuale delle tre classi tipologiche di fattispecie sopra indicate, a partire da quella raggruppata sotto il n. 1).

1) Fattispecie verificatesi antecedentemente all’operatività del divieto di sanatoria postuma dell’abuso paesaggistico.

Come già chiarito sopra, dopo alcune incertezze iniziali (parere MiBAC prot. n. 11758 del 22 giugno 2004, Cons. Stato, sez. II, par. 25 settembre 2007, n. 1557/2007, Tar Abruzzo, Pescara, 26 novembre 2007, n. 907, Tar Basilicata, 9 luglio 2008, n. 386), si è infine chiarito che il divieto di sanatoria introdotto dall’art. 146 del codice del 2004 è applicabile solo a partire dalla data di entrata in vigore del secondo decreto correttivo, introdotto con il d.lgs. n. 157 del 2006. In tal senso il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale (sez VI, n. 1917 del 2007, n. 3483 del 2007 e n. 3140 del 2009), ha chiarito che l’art. 146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (nel testo originario prima delle modifiche introdotte nel 2006), ivi incluso il divieto di autorizzazione a sanatoria, “costituisce norma a regime, non applicabile nel periodo transitorio”, poiché l’art. 159 dello stesso decreto legislativo, nel disciplinare il regime transitorio,  subordinava l’entrata in vigore della disciplina dettata dall’art. 146 all’approvazione dei piani paesistici ai sensi dell’art. 156 e al conseguente adeguamento degli strumenti urbanistici. Ha dunque soggiunto che la modifica all’art. 159 introdotta dal d.lgs. n. 157 del 2006, ancorando la durata del regime transitorio ad una data certa (art. 156, comma 1) e disponendo espressamente che anche nel periodo transitorio doveva trovare applicazione il divieto di autorizzazione postuma (allora comma 12 dell’art. 146), doveva ritenersi di natura innovativa — applicabile ex nunc – e non di interpretazione autentica con effetti retroattivi.
Ciò posto, occorre chiarire in che modo debba essere intesa la suddetta delimitazione temporale. Se, cioè, nel senso che a far data dall’entrata in vigore del c.d. “primo correttivo” sia radicalmente precluso il rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche in sanatoria anche per interventi realizzati anteriormente all’entrata in vigore delle suddette disposizioni del 2006, oppure se nel senso (opposto) che l’immediata operatività del divieto riguardi esclusivamente le opere realizzate dopo la sua entrata in vigore.
Questo Ufficio ha ritenuto, nel già citato parere n. 12627 del 22 luglio 2013, di poter dare un’apertura (ancorché dubitativa) per la seconda delle tesi sopra prospettate. Ma tale apertura — di ciò lo scrivente Ufficio è consapevole — si scontra con la perdurante difficoltà di trasferire alle misure ripristinatorie il regime proprio delle sanzioni afflittive (ossia delle sanzioni amministrative in senso stretto e proprio, atteso che la demolizione è tuttora ricondotta dall’opinione prevalente nel novero dei rimedi di amministrazione attiva, di ripristino del bene-interesse giuridico tutelato, di cura attuale dell’interesse pubblico protetto, piuttosto che nell’ambito delle sanzioni amministrative propriamente dette, nelle quali il fine è corrispettivo e di prevenzione generale e speciale, e non di ricostituzione del bene giuridico tutelato).
Resta peraltro vero (quanto si era evidenziato nel citato parere del 2013) che, anteriormente all’entrata in vigore del Codice, a partire dall’anno 2000, con le pronunce del Consiglio di Stato, rese in sede giurisdizionale dalla sez. VI, nn. 5373 del 9 ottobre 2000 e 5851 del 31 ottobre 2000, con un orientamento poi ribadito in sede consultiva con la pronuncia dell’adunanza generale n. 4 dell’ 11 aprile 2002 e via via confermato (ex multis Cons. St., sez. VI, 27 marzo 2003 n. 1590, 15 maggio 2003 n. 2653, 21 luglio 2003 n. 4192), si era ormai stabilizzata la tesi del potere dell’Amministrazione di rilasciare ex post l’autorizzazione paesaggistica, sicché l’espresso divieto innovativamente introdotto per la prima volta con la norma del codice del 2004 (entrata in vigore nel 2006) non avrebbe dovuto riguardare anche le fattispecie verificatesi antecedentemente all’operatività del divieto stesso, che avrebbero dovuto essere invece definite sulla base della disciplina sostanziale ad esse pro tempore applicabile, che  includeva la possibilità di valutare in via postuma la compatibilità paesaggistica dell’intervento dopo la sua realizzazione e di “sanare” l’abuso con il pagamento di una sola sanzione pecuniaria.
Tale soluzione troverebbe supporto nel principio generale vigente in materia di sanzioni (anche amministrative, ancorché ripristinatorie e non afflittive), desumibile anche dalla legge n. 689 del 1981, della irretroattività della norma che inasprisce il quadro sanzionatorio, quale appare essere indubbiamente la misura in esame, che ha escluso salvi i limitati casi di cui all’art. 167, comma 4, del codice di settore l’alternativa, meno afflittiva, della sanzione pecuniaria.
La tesi di possibile “apertura” verso l’applicabilità di un regime sostanzialmente non retroattivo alla “sanzione” demolitoria appariva fondata altresì sulla peculiare operatività del principio generale tempus regit actum, il quale presenta, come è noto, una diversa valenza a seconda che si faccia questione di norme procedimentali ovvero sostanziali e sanzionatorie. Queste ultime, fra le quali era apparso inscrivibile il divieto di sanatoria, in quanto aggravamento della “sanzione” (alternativa) originariamente prevista, trovano di regola applicazione solo con riguardo alle fattispecie commesse durante la loro vigenza, ma non possono estendersi a colpire fatti e atti anteriori, ancorché giudicati dall’amministrazione in un tempo successivo. Le seconde (le norme procedurali), viceversa, trovano immediata applicazione, con riferimento al tempo dell’esercizio della funzione, indipendentemente dalla data dei fatti dedotti nell’affare trattato (con la conseguenza che la nuova norma sostanziale sanzionatoria del divieto di sanatoria avrebbe potuto riguardare solo gli abusi commessi dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006).
Resta tuttavia vero, come già anticipato, che sarebbe in senso opposto sostenibile l’assunto secondo cui il rimedio demolitorio non rivestirebbe natura di sanzione afflittiva, ma di misura ripristinatoria, nella quale assume prevalenza il carattere di amministrazione attiva, di cura diretta della tutela del bene protetto, essendo prevalente l’interesse generale al ripristino del valore paesaggistico leso rispetto all’afflizione o alla diminuzione patrimoniale dell’incolpato. E che, dunque, in quest’ottica, non verrebbe in rilievo il principio penalistico dell’irretroattività della sanzione, ma quello, proprio dell’amministrazione attiva, della immediata applicabilità del regime più “severo” (ossia di più efficace realizzazione dei fini di tutela).
Riguardo a queste complesse tematiche conducono peraltro ad ulteriori riflessioni taluni recenti orientamenti dottrinari secondo i quali l’esclusione della natura afflittiva non comporterebbe necessariamente l’inapplicabilità alla misura amministrativa “sfavorevole” del principio di irretroattività tipico delle sanzioni amministrative in senso tecnico (disciplinate dalla legge n. 689 del 1981). Ciò in quanto, accanto alle misure ripristinatorie e a quelle sanzionatorie, sarebbe possibile individuare un “tertium genus” costituito da misure che, pur non avendo natura afflittiva vera e propria, comportano comunque – a seguito della violazione di una regola – conseguenze gravemente negative nella sfera giuridica del destinatario. Riguardando tali vicende alla luce del principio generale di “certezza delle regole”, sarebbe dunque possibile estendere taluni corollari applicativi riferiti alle sanzioni amministrative in senso tecnico anche ai provvedimenti aventi, comunque, carattere sanzionatorio (arg. ex art. 21-bis della legge n. 241 del 1990, ove è stabilito – terzo periodo del comma 1 – il carattere inderogabilmente recettizio dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere sanzionatorio: “Il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati non avente carattere sanzionatorio può contenere una motivata clausola di immediata efficacia”). A tale terzo genere di misure amministrative sfavorevoli conseguenti a infrazioni di regole (provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati aventi carattere sanzionatorio) potrebbero ragionevolmente estendersi taluni effetti o corollari applicativi propri delle sanzioni amministrative in senso tecnico o proprio, quali la inammissibilità di far derivare effetti giuridici sfavorevoli da regole oggettivamente incerte e oscure e, quindi, la non retroattività del trattamento giuridico deteriore.
Riguardo a questa alternativa interpretativa occorre tenere doverosamente conto dei principi affermati dalla Corte EDU nell’applicazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ormai incorporata, in uno alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza del 7 dicembre 2000, nel Trattato UE, art. 6, comma 1 e considerata dalla Corte costituzionale, dal 2007, norma interposta ai fini del giudizio di costituzionalità ai sensi dell’articolo 117, comma 1, Costituzione). Ebbene, come è noto, la CEDU si va attestando su una nozione sempre più ampia, sostanziale e dilatata di “pena” e di “processo penale”, comprensiva, dunque, di molte sanzioni amministrative, in tutti i casi in cui ricorrano i così detti Engel criteria (definiti nella sentenza CEDU 8 agosto 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi; più di recente cfr. le sentenze sez. II, 27 settembre 2011, Menarini c. Italia e 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia), che si riassumono nella qualificazione formale, nella natura intrinseca dell’illecito (ci si riferisce, in particolare, allo scopo afflittivo-deterrente ed al carattere generale) e nel grado di severità della sanzione. La rilevanza di questa giurisprudenza consiste nella conseguenza che la qualificazione di una sanzione amministrativa in termini “penali” determina l’applicazione della disciplina dell’articolo 6 e 7 della CEDU, anche sotto il profilo della sua irretroattività.
Ora, la misura amministrativa introdotta dal codice del 2004 (e divenuta applicabile a partire dal 2006) sembra presentare sicuramente il secondo e il terzo degli Engel criteria: essa non è formalmente qualificata “penale”, ma sicuramente cura la tutela di interessi generali e si applica indistintamente a tutti i consociati, oltre a presentare un elevato grado di  “severità”, poiché aggrava notevolmente la posizione dell’incolpato, che deve necessariamente demolire quanto realizzato e non può più (come prima) risolvere il problema pagando una somma di danaro. Che la sanzione demolitoria persegua interessi generali è altresì dimostrato per tabulas dal fatto che essa è “doppiata” da quella (anche formalmente) penale, di cui all’art. 81 stesso codice: la stessa condotta e lo stesso evento sono puniti sia con la sanzione amministrativa demolitoria, sia con quella penale (che assurge a delitto, nei casi “maggiori” di cui all’art. 181 del codice, e in ogni caso comporta la pena congiunta, detentiva e pecuniaria).
Tuttavia proprio quest’ultimo argomento, che fa leva sulla “plurioffensività” — penale e amministrativa – della stessa infrazione potrebbe militare a favore della tesi opposta, ossia della tesi della natura non penale della sanzione amministrativa demolitoria, atteso che la sanzione penale è predisposta e somministrata autonomamente dalla seconda previsione normativa (art. 181), essa sì sicuramente “penale”, lì dove, invece, la prima (art. 146) presenterebbe un carattere e contenuto sicuramente ed esclusivamente ripristinatori dei valori giuridici violati, ossia di amministrazione attiva all’attualità dell’applicazione della sanzione, in funzione di recupero del bene paesaggistico alterato e non di “pena” per il responsabile.
Peraltro, la mancanza di univocità nella soluzione del tema in esame è confermata dalla recente sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2015, che ha respinto la questione di costituzionalità dell’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi), sollevata dal Tar Campania, limitandosi a dire – punto 4.1. della motivazione in diritto – che (come da precedenti pronunce in tema di incandidabilità/incompatibilità) la sospensione e la decadenza costituiscono conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento e non sanzioni o effetti penali della condanna, senza affrontare la questione, pur sollevata dal TAR di Napoli (ma senza evocare il parametro pertinente dell’art. 25 Cost.), della natura sostanzialmente “penale” della norma della legge “Severino” che avrebbe inasprito le conseguenze sfavorevoli della pregressa condanna (il Tar di Napoli aveva infatti sospettato di incostituzionalità la norma sostenendo che la discrezionalità del legislatore “non può spingersi […] fino al punto di negare natura di vera e propria sanzione ad istituti tanto incisivi sull’esercizio di un diritto costituzionale, quale quello di accesso alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta”, con la conseguenza che “l’irretroattività si imporrebbe nel caso concreto, data la natura sanzionatoria delle cause ostative alla carica e al suo mantenimento, e data «l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività  nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali”). La Consulta, tuttavia, non ha fornito un criterio di carattere generale idoneo, anche alla luce della richiamata giurisprudenza CEDU, a distinguere ciò che è mero rimedio ripristinatorio rispetto alla sanzione amministrativa e rispetto a ciò che, per la particolare incisività negativa delle conseguenze sfavorevoli nella sfera giuridica del destinatario, trasmoda in sanzione in senso lato “penale”, assoggettabile come tale alla regola della irretroattività.
La delicatezza del tema e la sua oggettiva difficoltà di soluzione non consentono, come anticipato, allo scrivente Ufficio di fornire qui ed ora risposte conclusive, ma suggeriscono la possibilità, che verrà prontamente sottoposta all’attenzione dell’On.le Sig. Ministro, di proporre uno specifico quesito al Consiglio di Stato.
Può tuttavia essere utile sin d’ora fornire talune indicazioni relative ad alcuni aspetti applicativi, già evidenziati dagli Uffici, che deriverebbero dall’eventuale adozione di una soluzione positiva al quesito dell’inapplicabilità del divieto di sanatoria ai fatti consumati anteriormente al 2006.
Ove si dovesse optare per la tesi della natura sostanzialmente “penale” dell’aggravamento della sanzione demolitoria introdotto nel 2004-2006, si porrà “a valle”, infatti, il problema di quale regime procedurale applicare per la valutazione postuma di compatibilità paesaggistica. Come già chiarito dallo scrivente Ufficio in propri precedenti pareri (note n. 20341 del 20 novembre 2012, n. 12627 del 22 luglio 2013 (già citata) e n. 16813 del 14 luglio 2015, relative, rispettivamente, alla realizzazione di un parcheggio a Cortina D’Ampezzo, all’ampliamento di un’azienda agricola a San Michele del Gargano e all’installazione di una stazione radio base Vodafone Omnitel) deve ritenersi senz’altro applicabile, in quest’ottica, anche agli abusi commessi precedentemente all’entrata in vigore del citato decreto legislativo del 2006, per il completamento del procedimento relativo al rilascio del titolo edilizio con l’acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, il nuovo regime procedurale vigente oggi, ossia quello che si articola nel parere vincolante del Soprintendente ex art. 146 del ripetuto codice del 2004 (in luogo dell’annullamento ministeriale ex lege “Galasso”, pur allora vigente: sul punto cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4899).
Sempre ove si dovesse ammettere la sanabilità ex post degli illeciti paesaggistici consumati prima dell’operatività del nuovo e più severo regime, occorre fornire una risposta a quanto richiesto dalla Soprintendenza della Calabria (con nota prot. n. 1824 del 20 marzo 2014) “in merito alla possibilità di considerare l’esame delle opere “ora per allora”, ovvero indicando eventuali prescrizioni che consentano, in alcuni casi, se non la demolizione di quanto realizzato, di migliorarne l’inserimento nel contesto”. La risposta al quesito è ovviamente affermativa, e ciò per ragioni che attengono alla logica interna  dei procedimenti amministrativi a istanza di parte, quale è quello preordinato alla sanatoria di un abuso: la domanda del privato, infatti, attiva la discrezionalità tecnica dell’ufficio decidente (il parere vincolante costituisce, giova evidenziare anche in questa sede, una co-decisione: Cons. St., sez. VI, 4 giugno 2015, n. 2751), che può condurre agli esiti più vari del procedimento, ossia a un accoglimento pieno della domanda (totale compatibilità paesaggistica dell’intervento), a un suo rigetto totale (totale non compatibilità paesaggistica), ma anche a soluzioni intermedie (di parziale accoglimento/rigetto della domanda), per cui l’intervento può risultare solo in parte compatibile, così come, nella logica dei provvedimenti favorevoli condizionati, alla conclusione per cui la compatibilità paesaggistica potrà essere assentita a condizione che siano realizzati taluni interventi (invero minimali e non macroscopici, secondo un principio di proporzionalità e ragionevolezza) di mitigazione e miglioramento dell’impatto paesaggistico (Cons. St., sez. VI, 22 giugno 2005, n. 3306 ha ammesso l’apposizione di condizioni e prescrizioni nel parere soprintendentizio reso in una pratica di condono edilizio; ammettono la possibilità di prescrizione di interventi migliorativi Cons. Stato, sez. VI, 15 giugno 2009, n. 3806; Id., 1 luglio 2009, n. 4238, Id., sez. II, par. 4 giugno 2008, n. 1249/2007; Id, sez. Il, par. 30 gennaio 2008, n. 3491/2007; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 1 aprile 2009, n. 609).

2) Fattispecie verificatesi sotto il divieto di sanatoria ex post, ma riconducibili a casi di oggettiva incertezza o indeterminatezza dell’ambito spaziale applicativo del vincolo, non imputabile ai privati.

Relativamente a tali fattispecie, la questione posta, per come già trattata nei precedenti pareri resi dall’Ufficio, riguarda l’applicabilità della sanatoria postuma anche a taluni interventi realizzati sia anteriormente, sia successivamente al limite temporale costituito dall’entrata in vigore del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (c.d. “primo correttivo”), nel caso in cui si possa ritenere la sussistenza, in concreto, dei seguenti presupposti e condizioni, causalmente concatenati tra loro:

a.    una condizione di grave e oggettiva incertezza applicativa (o di certezza negativa della sussistenza di un vincolo) determinata da una carenza o da un vizio interno originari del vincolo stesso, sia, nel caso di vincoli ex lege “Galasso” di tipo ubicazionale, per un vizio dell’elemento normativo della fattispecie cui la delimitazione del vincolo rinvia (ad esempio, incertezza o carenza dell’atto amministrativo di delimitazione delle zone a) o b) di p.r.g., per le quali il vincolo di rispetto della fascia costiera è escluso), sia per una carente o errata o dubbia perimetrazione del vincolo provvedimentale (per carenza e errore cartografici, per l’avvio, poi non adeguatamente definito con atti conclusivi certi, di procedure di revisione, etc.);

b.    la conseguenza per cui tale grave e oggettiva incertezza applicativa abbia determinato una condizione di apparenza giuridica rilevante, per un periodo di tempo consistente, sorretta anche da specifici atti e provvedimenti delle amministrazioni competenti dai quali fosse possibile pianamente e in modo evidente ricavare il pacifico e continuato trattamento di determinate aree come prive di qualsivoglia vincolo paesaggistico;

c.    la conseguente riconoscibilità di una condizione di buona fede oggettiva nei cittadini e nelle imprese nel non essersi dotati, conseguentemente, di titoli paesaggistici, indotti a tale comportamento dall’univoco, costante e reiterato atteggiamento delle competenti autorità preposte alla gestione del vincolo;

d.    la assoluta irrilevanza e inidoneità ai suddetti effetti della mera inerzia o della mancata o insufficiente vigilanza e repressione sanzionatoria degli abusi.

E’ sembrato a questo Ufficio, nei ricordati pareri n. 9907 del 29 maggio 2012 e n. 19922 del 14 novembre 2012, che, ricorrendo tutte e quattro le condizioni sopra indicate, potesse ritenersi che il dispositivo di vincolo fosse divenuto operante, opponibile ed efficace solo dal momento della successiva puntualizzazione — con atto formale, amministrativo o giurisdizionale di data certa – degli ambiti spaziali di efficacia dello stesso, per l’innanzi non correttamente definiti.
Tale mancata operatività del vincolo troverebbe il suo fondamento in una sorta di carenza originaria strutturale dello stesso, quanto alla sua delimitazione spaziale, tale da renderlo inidoneo a produrre gli effetti suoi propri. Si tratterebbe, in quest’ottica, di un rilievo successivo di un vizio originario intrinseco all’atto di vincolo, che si risolve nella mancata operatività del vincolo, almeno per quelle aree e per quegli immobili direttamente interessati dal vizio di perimetrazione e di georeferenziazione dell’ambito spaziale applicativo dell’atto che assoggetta il bene a tutela. La patologia intrinseca dell’atto di vincolo, ancorché non sanzionata in sede di annullamento o di declaratoria di nullità parziale (in autotutela o in sede contenziosa e giurisdizionale), si manifesterebbe nella rilevazione di un profilo di inefficacia originaria dell’atto. La successiva rilevazione – e chiarificazione o precisazione – di tali ambiti spaziali, per l’innanzi non correttamente definiti, opererebbe alla stregua di una sorta di riforma in sanatoria dell’atto originariamente carente e viziato.
Nei citati pareri dell’Uffici si è prestata la massima attenzione, che qui va ribadita, a precisare che in nessun caso la fattispecie (per così dire) “scriminante” potesse configurarsi e operare quando la mancata richiesta delle autorizzazioni paesaggistiche fosse imputabile all’inerzia delle amministrazioni a vario titolo competenti, posto che tale condizione, pur necessaria (ma non sufficiente), completa la fattispecie solo se e in quanto conseguenza effettuale diretta della condizione oggettiva di incertezza causata dalla carenza strutturale del vincolo, nei termini sopra descritti.
Questa ipotesi ricostruttiva sembra trovare il conforto della dottrina — nel quadro del già più volte richiamato principio di “certezza delle regole” -, nonché della giurisprudenza. Il Consiglio di Stato (sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 4759), ha di recente esaminato un caso di un intervento edilizio (opere edilizie realizzate in parziale difformità rispetto a un permesso di costruire del 2008) realizzato in un Comune (Sicignano degli Alburni, in provincia di Salerno) ricompreso in un’area naturale protetta (parco nazionale del Cilento) la cui zona “B” ex d.m. n. 1444 del 1968 era esclusa dal vincolo paesaggistico ex lege in forza dell’originaria formulazione del comma 2 dell’art. 142 del codice, mentre era poi anch’essa rientrata nel perimetro del vincolo di cui alla lettera”) del comma 1 del predetto art. 142 — “i parchi e le riserve nazionali o regionali, nonché i territori di protezione esterna dei parchi” — a seguito della riformulazione del suddetto comma 2 ad opera del secondo decreto correttivo, di cui al d.lgs. n. 63 del 2008. Il Giudice d’appello ha dunque annullato il parere soprintendentizio del 2013 (che aveva negato la sanatoria paesaggistica, ai sensi dell’art. 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio, poiché l’intervento aveva comportato la realizzazione di nuove superfici e nuovi volumi) facendo leva sulla circostanza che il procedimento autorizzatorio per l’esecuzione dell’intervento non necessitava, all’epoca di presentazione dell’istanza, del parere della competente Soprintendenza, sulla considerazione per cui se “poi la normativa sia medio tempore mutata — nei sensi anzidetti, prima della data di adozione del permesso di costruire – è circostanza che non elide il profilo dell’affidamento riposto dal privato riguardo alla sua pretesa ad ottenere il titolo a costruire, come in effetti avvenuto”. Ha aggiunto il Consiglio di Stato che “Da tanto discende che l’attività edilizia posta in essere dalla odierna appellante è stata ab origine supportata da un titolo edilizio apparentemente idoneo a legittimare il suo intervento anche sul piano paesaggistico (in considerazione, appunto, della specificità del caso in esame, contraddistinto dall’intervenuta modifica legislativa dopo la presentazione della domanda dell’interessata e del rilascio del titolo a notevole distanza dalla predetta domanda). Non senza ragione, pertanto, l’odierna appellante richiama il suo stato di affidamento legittimo in relazione all ‘attività edilizia posta in essere sulla base del titolo edilizio ottenuto e censura, con la impugnata sentenza, il parere negativo della Soprintendenza che non tiene conto del fatto inerente alla cristallizzazione del titolo edilizio e della sua portata scriminante, anche agli effetti paesaggistici (per quanto si è testé detto), rispetto a quella parte di attività edilizia posta in essere in senso conforme al titolo”. In tal senso può segnalarsi anche Tar Lazio, sez. II-quater, 9 giugno 2008, n. 5638, che ha ammesso l’autorizzazione paesaggistica in sanatoria per fatti anteriori all’entrata in vigore del codice del 2004.
Ammessa, nei suddetti termini e alle suesposte, stringenti condizioni, la insussistenza di illeciti paesaggistici (stante la non operatività del vincolo fino alla data della sua successiva integrazione), occorre domandarsi se vi sia spazio per l’applicazione del regime antevigente della sanabilità ex post, sulla falsariga dell’art. 167, comma 4, del codice. A rigore la risposta deve essere negativa, ma non già perché le ridette fattispecie siano “insanabili”, bensì perché, secondo logica, essere non richiedono sanatoria alcuna, non sussistendo, in esse, come detto, la stessa illiceità paesaggistica della condotta e del fatto, posto che, al momento della realizzazione dell’intervento, il vincolo non operava.

3) interventi realizzati successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 157 del 2006 e in assenza delle suddette condizioni di obbiettiva incertezza, assentiti dai Comuni con il solo titolo edilizio.

La terza classe tipologica di fattispecie, riassunte alla pag. 2 del presente parere, riguarda la disciplina applicabile agli interventi assentiti dai Comuni con il solo titolo edilizio in assenza in situazioni di incertezza oggettiva circa la sussistenza del vincolo paesaggistico e in un periodo successivo all’entrata in vigore del divieto di sanatoria. Come già anticipato sopra, per tale casistica, che non sembra presuppore la soluzione di questioni controverse di diritto, si ritiene che debba applicarsi senz’altro la disciplina vigente di cui agli articoli 146, comma 4, per cui, fuori dai casi di cui all’articolo 167, commi 4 e 5, l’autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.

Alla luce delle suesposte considerazioni, appare possibile trarre le seguenti conclusioni.
a)    Sulla prima questione – se il divieto di autorizzazione in sanatoria ex post operi solo per gli abusi commessi in data successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 157 del 2006 — non appare allo stato possibile fornire indicazioni certe e univoche, tali da poter costituire un indirizzo stabile e affidabile per l’operatività degli Uffici, attesa la persistente opinabilità, per quanto sopra detto, della natura giuridica (solo amministrativa o anche “penale” in senso lato) della nuova sanzione demolitoria e, per l’effetto, della retroattività del nuovo regime di divieto di sanatoria ex post anche rispetto ad abusi compiuti prima dell’entrata in vigore di tale nuovo regime. Su tale problematica questo Ufficio ravvisa, pertanto, l’opportunità di chiedere il parere del Consiglio di Stato.
b) Sulla seconda questione risulta invece possibile confermare e ribadire quanto già acclarato nei precedenti pareri dell’Ufficio sopra richiamati nel senso della possibilità, anche per le fattispecie successive all’entrata in vigore del codice, ricadenti sotto il divieto di sanatoria ex post, di escludere l’applicabilità della sanzione (recte: della stessa sussistenza dell’illecito paesaggistico) allorquando il dispositivo di vincolo possa ritenersi non operante in presenza dei presupposti e delle condizioni sopra analiticamente indicati al fine di poter ritenere la carenza strutturale originaria del vincolo stesso e, conseguentemente, la non operatività del vincolo in quanto originariamente e intrinsecamente viziato per carente perimetrazione, e ciò fino alla data certa in cui l’errore è emerso, è stato acclarato e ad esso è stato posto rimedio in sede di sanatoria.

Il Capo dell’Ufficio legislativo

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CARLO PAGLIAI, Ingegnere urbanista, esperto in materia di conformità urbanistica e commerciabilità immobiliare
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